Abitabile, a misura d’uomo, pullulante di studenti, vitale e vissuta. Una città da sempre fortemente attrattiva grazie al ruolo della storica Alma Mater Studiorum, delle possibilità lavorative, della qualità dei servizi, del turismo di massa ma di fatto anche di quello sanitario. Una città che nonostante una crisi globale, a partire dal 2009 ha visto la sua popolazione residente crescere e il numero dei city users intensificarsi anno dopo anno.
Il Covid19 ha impattato con forza e destabilizzato tutti i suoi equilibri interni: la sua Piazza Grande è rimasta deserta per giorni, nella potente immagine di un vuoto del tutto inusuale, i suoi Giardini Margherita inaccessibili a chiunque mentre la primavera esplodeva fuori dalle finestre, la sua Piazzola interrotta, come tutte le routine in cui ci culliamo. Vuoto il Pratello, deserte le strade, le piazze e gli storici luoghi di aggregazione. Bloccati i mercati rionali, isolate e rese inagibili con nastri rossi e bianchi tutte le aree gioco della città, modificate aperture e modalità di accesso a negozi e supermercati, riconvertiti spazi ospedalieri. Così, dall’oggi al domani, siamo tutti rimasti sprovvisti di quegli spazi dati quotidianamente per scontati, nonché dell’organizzazione e della scansione temporale supportata proprio dai ritmi della città. La dimora è così diventata per molti il luogo dove spazio e tempo si sono fusi in una veste del tutto inedita e la digitalizzazione l’unico strumento per rimanere “comunque” connessi all’esterno e agli altri.
Bologna ha risposto con grande forza, appena il tempo di reiventarsi. In piena Fase1 i commercianti diventavano fattorini, il vicinato sostenitore dei più deboli, l’Università telematica, le riunioni videoconferenze e gli aperitivi virtuali (volendo anche con spritz consegnato direttamente a domicilio). Anche il ciclo pandemico procede però a ritmi sostenuti ed è improvvisamente già tempo di Fase2. Questa, appena partita, da un lato espone a pericoli e paure, dall’altro invoglia a riprendere tutte le attività interrotte e a re-immergersi in tutti quei meccanismi spazio-relazionali che ci hanno fino ad oggi definiti. Nella sua ambivalenza impone quindi il ripensamento di molti degli schemi a cui eravamo abituati.
Prima che la pandemia scoppiasse Bologna era presa dalla definizione del PUG (nuovo Piano Urbanistico Generale) che impatterà inevitabilmente sulla vita dei propri cittadini intrecciando questioni urbane e questioni sociali. Il coronavirus ci fornisce incredibilmente quell’escamotage per continuare a (ri)pensare le città che abitiamo, le forme e i luoghi che edifichiamo, senza inciampare oggi in una artificiosa e ingenua polarizzazione tra una città improvvisamente demonizzata perché luogo della densità insediativa e una visione romantica dei territori rurali, improvvisamente rilanciati come luoghi sicuri in cui vivere.
“Abitabilità e inclusione”, uno dei tre obiettivi individuati dal PUG per la Bologna di domani mantiene alta l’attenzione sull’attrattività che contraddistingue e che deve continuare a rappresentare uno dei pilastri per questa città.
Paradossalmente la pandemia ci insegna che, pur nel distanziamento fisico oggi necessario, abbiamo bisogno di maggiore prossimità, maggiore solidarietà e uguaglianza, maggiori scambi, maggiori luoghi di aggregazione fruibili, maggiori spazi pubblici, maggiore attenzione agli ultimi e ai penultimi. Ciò che quindi questa pandemia mette in crisi (speriamo definitivamente) è su scala urbana l’ipercentralizzazione delle risorse e delle opportunità e il parallelo abbandono delle periferie urbane e sociali, tendenze che hanno accompagnato la ridefinizione neoliberista degli spazi urbani negli ultimi decenni. Un solo centro e tante periferie è un modello di città che assicura profitti (a pochi) ma ha un costo sociale insostenibile per ampi settori della popolazione.
A Bologna necessitiamo di un cambiamento di scala che privilegi quartieri di dimensioni più ridotte ma in cui tutte le funzioni sociali di base e le relazioni di vicinato siano assicurate. Fin quando i territori rimarranno disomogenei, fin quando la perifericità verrà intrinsecamente considerata problematica, fin quando la disuguaglianza avrà costi sociali imponenti, la ripartenza resterà infatti un privilegio e questa pandemia ci avrà permesso di seminare poco o nulla.
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