Non essendo uno storico non cercherò di far finta di esserlo. Quindi la mia riflessione su Giorgio Amendola sarà un misto fra ricordi personali di una militanza, che pur vissuta lontano dai piani alti del Partito comunista, risentiva del dibattito economico che là si svolgeva e una lettura, da economista applicato quale ero, dei principali temi legati allo sviluppo del paese su cui Giorgio Amendola è intervenuto, per tutta la sua vita, da dirigente politico e da intellettuale italiano.
Voglio però delimitare il periodo considerato: quello che va dalla fine degli anni ’60 e del decennio degli anni ’70 fino ai primi anni ’80 pur in considerazione che la sua morte avviene nel giugno del 1980.
Quel periodo è interessante perché segna a mio avviso lo spartiacque del Pci da partito antagonista, legato alla storia antifascista e alla ricostruzione del paese, ad una nuova fase in cui pur venendo meno, o almeno indebolendosi, alcuni caratteri originari legati alla collocazione internazionale a fianco dell’Urss e alla collocazione culturale dentro l’alveo marxista, il Pci poteva cogliere l’occasione per riposizionarsi decisamente, e senza tentennamenti retorici, all’interno di una sinistra occidentale europea. Ed invece non lo ha fatto o non lo ha fatto in maniera decisa, scontando così un ritardo nella lettura dei fenomeni economici e sociali degli anni ’80 e perdendo sempre di più la capacità di rappresentanza politica della società italiana.
In questo turbolento periodo Giorgio Amendola ha dato un contributo importante per cercare una diversa collocazione strategica al Pci segnando però, alla fine, anche una propria sconfitta, e di quanti con lui hanno cercato di seguire strade diverse, che è segnata, in termini simbolici, dalla marcia dei 40 mila alla Fiat di Torino del 1980 e dalla sconfitta sul Referendum sulla scala mobile del 1985.
Ma veniamo alla fine degli anni ’60 e al decennio successivo. Con due elementi che caratterizzeranno l’intero periodo. L’autunno caldo, con le forti proteste operaie e studentesche, che scuotono in profondità la politica e la società italiana e l’attentato di Piazza Fontana nel centro di Milano presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura che causò 17 morti e 88 feriti. Questo sarà un accostamento purtroppo continuo e stabile in quelli che saranno chiamati gli anni di piombo. Le stragi fasciste di Brescia e dell’Italicus nel 1974, la strage di Bologna nel 1980 e lo stillicidio di azioni terroristiche delle Brigate Rosse che culmineranno nel 1978 con l’uccisione di Aldo Moro accompagneranno in maniera macabra i grandi moti di protesta dei lavoratori e l’azione dei sindacati. E accompagneranno anche l’azione politica del Pci che vive in maniera ambivalente questo periodo. Si sente da una parte spinto da questa rinascita di soggettività operaia, e dei lavoratori più in generale, a mantenersi dentro una più tradizionale funzione antagonista e, per alcuni versi, massimalista. Si pensi che il Pci si astiene sullo Statuto dei diritti dei lavoratori nel 1970 perchè non avrebbe riguardato le imprese sotto i 15 addetti. Provate ad immaginare cosa sarebbe successo nel nostro sistema produttivo di piccole imprese con questo allargamento! D’altra parte comprende che in questo movimento ci sono anche elementi in contrasto con il ruolo fondamentale e le posizioni che il Pci esprime sia a livello economico che politico più generale. L’autonomia e la rappresentanza operaia nelle fabbriche, il salario come variabile indipendente posta come elemento centrale di lotta economica dagli sraffiani di sinistra e un egualitarismo spinto posto dalle frange più estremiste della realtà di fabbrica sono elementi che stridono con la visione strategica del Pci.
Amendola, fra i dirigenti del Pci, è quello che sente di più questa contraddizione. La vive, potremmo dire, quasi in maniera personale. Mettendo assieme due elementi che non lo abbandoneranno mai in questo periodo. E cioè l’idea che il partito deve tenere la guida del movimento e non viceversa, ed in questo appare agli occhi di molti come un “comunista duro”, lo stalinista di destra, e d’altra parte, in un’ottica gramsciana, che la funzione della classe operaia non può essere “corporativa”, e quindi pensare solo al proprio immediato interesse, ma deve svolgere sempre una funzione nazionale. Una funzione che deve portare il partito a non rinchiudersi in una visione operaista ma che deve piuttosto guardare al mondo dei ceti medi, del mondo cooperativo e delle piccole imprese. E anche all’interno della fabbrica occorre guardare al lavoro qualificato. Mai appiattire l’analisi nella visione “dell’operaio massa” che vale più come simbolo astratto nella lettura di movimenti rivoluzionari da salotto che nell’analisi concreta del mondo del lavoro. Non a caso Amendola fu uno dei pochi dirigenti del Pci ad opporsi nel 1975 all’accordo fra sindacati e Fiat sul punto unico di contingenza come strumento, così si pensò, di riduzione dello scontro sociale in atto dentro le fabbriche. E che invece diventò uno strumento di appiattimento delle retribuzioni del lavoro dipendente in un clima inflazionistico fuori controllo.
Questa idea della classe operaia come forza nazionale rimase un elemento centrale della riflessione e dell’impegno politico di Amendola. Sarà il filo rosso che percorre tutta la sua vita politica e che lo porterà anche, alla fine della sua vicenda personale, ad una sorta di delusione personale che scaturirà nell’articolo su Rinascita del 1979, in merito al mal riuscito e mal proposto sciopero alla Fiat contro i licenziamenti per atti di violenza in fabbrica. E, in maniera più netta, nella lettera testamento scritta poco prima di morire a Giorgio Napolitano in merito agli errori del Pci nei confronti di un certa accondiscendenza di pezzi del mondo del lavoro verso l’estremismo e la violenza operaia nelle fabbriche.
Ma anche Giorgio Amendola che era senza ombra di dubbio il più “aperto” nei confronti dei partiti politici diciamo così dell’area liberalsocialista nello scacchiere politico italiano, ed in particolare del Psi e del Pri, e più aperto sul tema delle alleanze sociali verso ceti e gruppi fuori, sia socialmente che culturalmente, dallo stretto mondo operaio non si può definire un socialdemocratico dentro il Pci.
Sono, a tal proposito, interessanti le riflessioni più volte sviluppate in seminari, convegni e interviste in contraltare al suo amico Ugo la Malfa. Il capo del Pri, fortemente legato per esperienze individuali e studi economici alla lettura keynesiana dell’economia, lo spinge più volte ad accettare un piano di riflessione “occidentale”. Il capitalismo oggi non è più un sistema politico ma è un sistema tecnico. Dentro questo sistema, aperto e flessibile, si possono inserire diverse cose di sinistra. La proprietà dei mezzi di produzione, attraverso quello che in Italia sono le partecipazioni statali, gli indirizzi al modello di sviluppo attraverso la programmazione che può spingere a più consumi o a più investimenti e in quali settori, un livello salariale adeguato e un welfare diffuso e quindi, in ultima istanza, una determinata distribuzione del reddito a favore delle fasce più deboli. E, cosa più importante, un livello di occupazione spinto verso un equilibrio di piena occupazione attraverso il “fine tuning” keynesiano. Giorgio Amendola comprende e accetta quel piano di discussione. E in fondo, pur con una retorica diversa, è quella la politica “reale” del Pci in Italia in quegli anni. C’è l’idea che le politiche keynesiane, arricchite dalla curva di Phillips, possano essere un valido strumento di gestione del fenomeno della disoccupazione e che le politiche di welfare siano alla base di buone pratiche redistributive del reddito. Ma resta in Giorgio Amendola non tanto il mito dell’ora x, in cui una rivoluzione cambierebbe la natura del sistema economico italiano da capitalistico a socialista, quanto l’idea che dentro il capitalismo la classe operaia non può avere il potere di cambiare la sostanza della società. E cioè da una società che guarda solo al profitto, peraltro sempre più appannaggio di un capitalismo a carattere parassitario e monopolistico, ad una società che guarda ai bisogni dell’uomo. E quindi per Giorgio Amendola, che pur resta legato all’esperienza sovietica per collocazione internazionale, il comunismo non è un apparato di strutture statali di controllo dell’economia e della società ma è un sistema che, grazie alla funzione nazionale della classe operaia, cambia la natura degli obiettivi di fondo. Per questo non accetta la socialdemocrazia come obiettivo finale pur accettando di porre l’accento su battaglie che possono migliorare la vita dei lavoratori e della società nel suo complesso.
Peraltro, a rendere meno attraente la visione socialdemocratica proprio negli anni ’70 si rompe il meccanismo che aveva reso gestibile il “fine tuning” keynesiano negli anni del miracolo economico. Dal 1974 al 1984 si afferma, non solo in Italia ma nel nostro paese in maniera esasperata, la famosa “stagflazione”. E cioè una inflazione elevata, sempre al di sopra del 10% con la punta del 21% nel 1980, a fronte di una bassa crescita. E quindi la curva di Phillips che portava ad accettare un po’ di inflazione in cambio di un abbassamento della disoccupazione non funziona più. E’ del 1976 l’articolo di Lucas e Sargent, della scuola di Chicago, che stabilisce attraverso la teoria delle aspettative razionali, il non funzionamento del tradeoff fra inflazione e disoccupazione decretando in qualche modo la crisi della gestione keynesiana della piena occupazione. La lotta all’inflazione e la fine delle politiche keynesiane saranno i cardini del nuovo “main stream” liberista che caratterizzerà la politica economica degli anni a venire. E la sinistra, non solo italiana, avrà poca forza nel rispondere a questo attacco ai fondamenti all’intervento dello Stato nell’economia. E il Pci ancora meno così come risultava attardato a seguire i propri percorsi di alterità rispetto ad approfondire e a rinnovare, come avrebbe dovuto e potuto, la strumentazione keynesiana e la visione del capitalismo come sistema flessibile e riformabile. Come appunto sosteneva Ugo La Malfa e i tanti, veri, riformisti dentro e fuori del Pci.
In questo clima resta allora difficile per il Pci trovare una via di sinistra per lo sviluppo del paese. Da una parte infatti viene attratto e attaccato nello stesso tempo dalla corrente antagonista. Cioè di quell’approccio culturale che non si pone un obiettivo generale ma che si pone in antagonismo col sistema cercando di sviluppare, con la lotta nelle fabbriche in particolare nelle grandi fabbriche metalmeccaniche, una spinta salariale autonoma. Cioè fuori da condizioni di tenuta generale del sistema economico. La scala mobile fa parte di quel disegno. E’ uno degli strumenti che sostiene la lotta di trincea fra capitale e lavoro. I morti stanno nella società, in chi non ha difese dalla inflazione elevata. Ma spesso sono morti con poca voce. Dall’altra, e ancora una volta troviamo Giorgio Amendola, c’è un Pci che si pone di riportare la lotta delle fabbriche dentro un alveo generale di lotta politica per la costruzione di una società più giusta in cui la classe operaia possa uscire ancora una volta da una logica corporativa e possa di nuovo diventare una classe generale che si batte per un interesse nazionale. La lotta all’inflazione, a quella inflazione di cui si era perso il controllo, diventa una lotta del Pci e del sindacato. Il Pci nel 1976 lancia l’idea del compromesso storico che porta, in termini istituzionali, al Governo Andreotti della “non sfiducia”. Cioè il minimo che poteva essere fatto per mettere il Pci dentro un clima di collaborazione fra le forze politiche e evitare che andasse verso una deriva antagonista. Dentro questo nuovo clima Luciano Lama, nel 1978, definisce “una fesseria” la formula del salario come variabile indipendente.
Giorgio Amendola sta ovviamente dentro questa politica generale del Pci. E sente ovviamente come più vicine al suo orientamento le decisioni della Cgil volte a rifiutare il muro contro muro fra classe operaia e padronato. Non è da quel testa a testa che si fa avanzare un nuovo modello di sviluppo. Magari sente meno i termini Berlingueriani di rapporto col mondo cattolico e di una certa “visione ascetica” del concetto di austerità forse preferendo mantenere la vicinanza, per lui più tradizionale, col mondo laico e socialista ma quella svolta è per lui salutare.
L’assassinio di Aldo Moro e la caduta del Governo del compromesso storico rappresentano la fine precoce di un tentativo nel paese di lanciare, attraverso un governo di tutte le forze costituzionali della politica italiana, una sorta di ripartenza collettiva del paese. Cioè di mettere da parte gli scontri politici e ideologici che provenivano, dopo un breve periodo di unità antifascista, dallo scontro e dal logoramento della guerra fredda e che avevano portato l’Italia ad una situazione di crisi politica permanente con forti riflessi negativi nell’economia e nella società. Per rimettere delle basi più solide e ridare una agibilità democratica alla dialettica politica fra forze contrapposte e ugualmente abilitate a governare. Era fallito il tentativo intentato col compromesso storico. Ed è quello il momento, il 1979, in cui da quel fallimento si presentano due strade diverse al Pci. Ancora una volta si poteva riprendere la strada del “chiamarsi fuori” in nome di una diversità morale e di una adesione ancora non piena alla dialettica democratica dentro un sistema capitalistico occidentale oppure si poteva, pur partendo dal fallimento del compromesso storico, mettere il Pci a servizio della democrazia italiana. Non più come “baluardo democratico” nei confronti delle forze dominanti ma come “strumento democratico” di una normale dialettica politica. La via scelta da Berlinguer è ambigua il tal senso. Laddove sceglie nel 1980 di andare davanti ai cancelli della Fiat a sostenere la battaglia, sbagliata e velleitaria degli operai, e a cui seguirà la marcia dei 40000 che sarà il prodromo per la successiva sconfitta del Pci al referendum sulla scala mobile. Sconfitta che decreta in qualche modo la fine di una egemonia del Pci sulla sinistra italiana e anche nel paese. Giorgio Amendola, pur alla fine della sua vicenda personale, morirà nel giugno del 1980, vede in maniera chiara questa prospettiva. E pone due problemi. Il primo è quello relativo alla politica delle alleanze. Il pci per diventare un partito di governo deve allearsi con le forze socialiste e laiche. Avendo sempre in testa la “sua classe operaia” che deve avere un ruolo nazionale. E la classe operaia, uscendo anche dalle sole grandi fabbriche metalmeccaniche, è fatta di un mondo del lavoro che sta nelle piccole imprese, nelle imprese cooperative, nel lavoro autonomo etc e quindi si rappresenta in un sistema politico che va oltre il Pci. A questa alleanza dei lavoratori deve puntare il Pci. Il secondo è che questa visione nazionale deve passare attraverso l’abbandono di posizioni minoritarie e agitatorie che in qualche caso fiancheggiano o supportano politicamente le violenze e le malversazioni che si realizzano all’interno delle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Giorgio Amendola con l’articolo di Rinascita del 1979 pone questo punto e lancia la sua visione testamentaria che richiama il Pci a posizioni di contrasto alla violenza e a un certo estremismo parolaio. Ha certamente in mente Guido Rossa e i tanti operai che, nelle fabbriche, non accettano il clima antidemocratico creato da piccole frange di antagonisti.
Il Pci di Berlinguer ovviamente rafforzò, senza tentennamenti, il messaggio, anche morale, di rifuggire la violenza e il terrorismo scagliato nella società italiana in nome di una battaglia rivoluzionaria tanto velleitaria quanto tragica, condotta da minoranze prive di ogni reale contatto con la grande maggioranza dei lavoratori. Ma non accolse mai l’idea di un partito finalmente deideologizzato da lanciare in una ricerca di un socialismo possibile e capace di consenso in una società avanzata dell’occidente capitalistico. Restò in qualche modo ancorato ad una”alterità” che poteva e doveva essere superata molto prima di quanto avverrà, frettolosamente e con poche basi teoriche, con la “fine del comunismo” nel 1989 . Questa “cesura autonoma”, non creata da accadimenti esterni, forse avrebbe potuto far arrivare il Pci in una diversa condizione di fronte a quell’evento. In una condizione di ricerca e non di sconfitta. Giorgio Amendola avrebbe sicuramente accompagnato questo percorso di ricerca con la sua capacità di guardare oltre la tradizione di un comunismo dogmatico pur nell’impegno mai venuto meno in tutta la sua vita di costruire, con la spinta della classe operaia, una società a misura dei lavoratori che andasse oltre anche alle migliori esperienze socialdemocratiche.
Paolo Savini
Bellissimo articolo
Paolo Savini
Bellissimo articolo fa riflettere su gli anni passati ma anche su oggi, come siamo potuti cadere così in basso? Salvini di maio, zingaretti, bersani?