“Amendola – ricorda Pietro Secchia, uno dei suoi principali avversari nel Pci – è uno dei pochi che ha il coraggio di affrontare i problemi e dire ciò che pensa”. “Giorgio – annota Pietro Nenni – è il meno cinico dei comunisti” e Sandro Pertini così lo ricorda: “Ho sempre apprezzato in Amendola la capacità di scuotere la cappa dogmatica e di intravedere lucidamente i segni premonitori degli uomini e delle cose”. Giorgio Amendola rappresenta indubbiamente la figura più rilevante nel Pci dopo i suoi segretari nazionali.
Sua caratteristica: non ebbe paura di essere “destra”, termine impopolare nella sinistra e in particolare nel Pci. Mentre essere di “sinistra”, come Ingrao, incuteva quasi un senso di colpa e faceva “sognare”, esaltava un’orgogliosa diversità, immaginava un “arrivano i nostri” da una fantomatica ma affascinante “sinistra sommersa”, le tesi di Amendola erano un brusco richiamo alla realtà e alla concretezza, al fare politica con obiettivi immediati e per la tutela possibile dei più deboli, alla necessità di alleanze con chi è diverso praticando negoziati e compromessi.
E’ però sbagliato estrapolarlo dal mondo comunista inventando – come spesso viene fatto per Berlinguer e persino per Togliatti – un comunista non comunista, tutto “italiano” e “riformista”. Era “rivoluzionario di professione” e “internazionalista” da quando nel 1944 ordinava al di fuori del Cln le avventure dei gappisti romani come via Rasella a quando nel 1979 solidarizzava con l’Urss per l’invasione dell’Afghanistan.
Giorgio Amendola è stato tra i principali collaboratori di Togliatti, Longo e Berlinguer, ma anche il dirigente che più apertamente è entrato in conflitto con loro su temi centrali: la destalinizzazione nel 1956 e nel 1961, la «contestazione globale» e l’uso dell’antifascismo tra il 1968 e il 1976, il rapporto tra sindacato ed estremismo nel 1979. Sono capitoli che rispecchiano il tentativo di fare del Pci una sinistra di governo come, appunto, intitolò polemicamente un suo articolo: “Partito di governo” sollevando scandalo nel Pci.
La polemica di Amendola su Kruscev mise infatti seriamente in difficoltà Togliatti nel vertice del partito – in particolare nel 1961 dopo il rilancio della destalinizzazione al XXII Congresso del Pcus – circa le passate «corresponsabilità» con Stalin e arrivando a prospettare uno scontro interno tra maggioranza e minoranza. Amendola credette nell’autoriforma krusceviana e quando, poco dopo la scomparsa di Togliatti nell’agosto 1964, il Pci si trovò in novembre di fronte alla destituzione di Kruscev, la reazione di Amendola non fu di supino allineamento come da parte di Longo e Ingrao. Colse nell’avvento di Breznev l’inizio di una involuzione e reagì clamorosamente proponendo di dar vita a un partito nuovo, in sostanza di cambiar nome al Pci: «Tra la via seguita dalla socialdemocrazia […] e la via seguita nell’Unione Sovietica […] dobbiamo ricercare una via nuova» e cioè dar vita a un nuovo partito «né su posizioni socialdemocratiche né su quelle comuniste». Per la prima volta si affaccia nel PCI il tema del postcomunismo e si prospetta per l’Italia un sistema politico imperniato sul bipolarismo. Da allora Giorgio Amendola si troverà in quello che lo storico dell’Istituto Gramsci, Roberto Gualtieri, ha definito un «graduale isolamento». Il «graduale isolamento» di Amendola va quindi ricostruito e inquadrato in un parallelo «graduale spostamento a sinistra» del partito. È a ciò che Amendola reagisce entrando in conflitto con Longo sul Sessantotto accusando il vertice del Pci di “debolezza nel condurre una lotta contro le posizioni estremiste e anarchiche … e di qui diffuse anche in certi settori del movimento operaio. In realtà tutto il nostro fronte di sinistra è restato a lungo scoperto”.
E’ nel ’68 che Longo promuove Berlinguer e lo avvia alla successione. Amendola però all’inizio degli anni ’70 sostiene il “compromesso storico” di Berlinguer in quanto “politica di governo”,
L’Amendola di questi anni è particolarmente innovativo nella sinistra italiana: pone al centro dell’attenzione deficit e inflazione ed esprime scetticismo nei confronti di chi sostiene che il tutto possa essere risolto seguendo i motti «lotta agli evasori» e «far pagare i ricchi». Contesta la «difesa a oltranza di vecchie fabbriche dissestate» (in quanto così si è estesa «la zona del capitalismo protetto, assistito, refrattario a ogni reale riconversione») e quanti nella sinistra italiana (soprattutto a livello di sindacato e di enti locali) esercitano «la resistenza passiva a ogni mutamento»: «Ogni proposta di ridurre il deficit del bilancio dello Stato, sia che si tratti di accrescere le entrate che di ridurre le spese, si urta contro resistenze spesso corporative».
Amendola invoca quindi «sacrifici senza contropartite» e mette in discussione l’estensione che c’è stata della scala mobile e la necessità di rivederla insieme al modo in cui il sindacato deve considerare senza atteggiamenti pregiudizialmente ostili la mobilità.
Il conflitto con Berlinguer esploderà pubblicamente quando Berlinguer, uscito dalla maggioranza di governo, al congresso del 1979 sposta a sinistra la direzione e la politica del Pci.
Nell’autunno del ’79 Amendola è soprattutto preoccupato dal rapporto che vi è nelle fabbriche tra estremismo e violenza che apre la strada al terrorismo: “Non si è denunciato – scrive su “Rinascita” – a sufficienza il rapporto tra estremismo sindacale, autonomia operaia ed estremismo armato, si è negato il nesso tra linea di austerità e linea di lotta conseguente contro il terrorismo. Vaste sono state le zone di omertà e complicità”. «Per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti», incalza Amendola, si è finiti «per giustificare i nuovi atti di teppismo, di violenza, nelle fabbriche». Per Amendola è innegabile che vi sia «un rapporto diretto tra violenza in fabbrica e il terrore» e lamenta «assenza degli operai della Fiat dai funerali delle vittime del terrorismo».
La risposta di Berlinguer è durissima. Convoca quel che Luciano Barca ricorda come un “C.C. tutto contro Amendola”. Proprio nei giorni in cui compie cinquant’anni di iscrizione al PCI, il segretario del suo partito lo accusa di non conoscere l’«abc del marxismo» ed egli comincia a pensare di dimettersi dalla Direzione di cui fa parte dal 20 agosto 1943.
La sostanza dell’eredità di Amendola è nella necessità di innovazione e nell’inconciliabilità tra sinistra di governo e sinistra antagonista. Si tratta di una serie di «sfide» che, per usare le parole di Luciano Cafagna, sono alla base del «fastidio» che ancora emerge nei suoi confronti da parte dei leader postcomunisti da quando hanno sciolto il PCI fino ad oggi.
Daniela MAININI
Complimenti Ugo sempre istruttivo leggerti ricordo ai lettori che volessero approfondire il tuo documentatissimo testo “Togliatti & Amendola. La lotta politica nel PCI. Dalla Resistenza al terrorismo” (Ares 2009). “Che abbiamo avuto l’opportunità di presentare al CSGM .
Paolo
Ricordo di aver condiviso la sua posizione sull’ Afghanistan, ma non sono più in possesso di documenti ed atti che illustrino questa sua posizione. La sua proposta di unificazione in un unico partito del lavoro ne fa un gigante.
oreste lodigiani
Grazie Ugo!
Essenziale e acuto, come sempre.
Mi hai consentito con il tuo articolo di fare un personale ripasso della storia che abbiamo vissuto, non indegnamente. Oreste
ugo finetti
Grazie caro Oreste,
un caro saluto e spero a presto!
Ugo
Carlo Tognoli
Finetti, giovane amendoliano nel PCI e nenniano e craxiano nel PSI dal 1966. Che c’è di meglio?
CT