Cosa altro deve avvenire in questo Paese per realizzare le due riforme che, da almeno quaranta anni vengono evocate (e respinte dall’ora immaginabile groviglio di interessi) per mettere sui giusti binari la giustizia? Separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, fine di quella ipocrisia che è l’obbligatorietà dell’azione penale: queste le due riforme alle quali ci riferiamo e che ancora una volta si palesano come necessarie. Il segnale, appunto, viene dalle vicende di due magistrati che, nella cosiddetta magistratura associata, militano in correnti opposte. Eppure, dagli svarioni di entrambi, si giunge alla medesima conclusione. Pier Camillo Davigo, per una vita accusatore (e che accusatore) ribadisce il suo credo: non importa attendere le sentenze per dare del delinquente ad una persona. “Se io ho visto portarmi via l’argenteria di casa, che bisogno c’è”. Esempio apparentemente blindato. In realtà efficace a palesare una mentalità distorta, quella di un PM che vede solo le ragioni dell’accusa. Perché, intanto e fortunatamente, chi poi deve giudicare è una persona terza. Che non poteva essere presente al “furto”. Dunque, non dovrebbe partire da una verità precostituita e si formerà il suo giudizio, valutando gli elementi a favore e contro l’eventuale imputato. E se si fosse sbagliato? E se avesse sottratto i coltelli pensando che li aveva dati in prestito perché il padrone di casa non ne aveva a sufficienza, e invece aveva prestato solo le forchette? In ogni caso, l’esempio non regge perché nei processi penali una tale evidenza difficilmente c’è. Altrimenti perché avremmo giudizi diversi in primo, secondo e terzo grado? Nessuno, dunque, meglio di Davigo con i suoi falsi “sillogismi” dimostra che la formazione e la mentalità di un pubblico ministero è sideralmente lontana da quei criteri di moderazione e terzietà che sono propri del giudice. Mentre le trame che emergono dalle intercettazioni a Luca Palamara e che stanno inondando i giornali, ( e non si sa se siano orientate perfino le pubblicazioni) darebbero, se corrispondenti al vero, la prova di indagini e perfino sentenze pilotate, in un intreccio che prevederebbe complicità tra magistrati, politici e giornalisti. L’illusione della “obbligatorietà” dell’azione penale, come unico criterio che determina l’avvio delle indagini, viene ovviamente spazzata via da quello che leggiamo sui giornali di questi giorni.
Le due riforme, abolizione della presunta obbligatorietà dell’azione penale, in quanto feticcio illusorio e deresponsabilizzante; e la separazione delle carriere al fine di mettere sullo stesso piano accusa e difesa nel processo penale, sarebbero entrambe ugualmente urgenti e necessarie. Ma, intanto, si dovrebbe cominciare dalle separazione delle carriere. Per un motivo molto semplice. Quasi tre anni fa, il 31 ottobre 2017, è stata presentata dalla Unione Camere penali e dal partito radicale trasnazionale e transpartito, una proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare: “Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”. Dal 20 febbraio del 2019, è iniziato l’esame nella prima Commissione della Camera. Sarebbe una irripetibile occasione per recidere uno dei nodi più importanti che bloccano una profonda riforma della nostra giustizia. I fatti di questi giorni, che abbiamo citato, ci dicono che si tratta di una riforma indispensabile. I precedenti, al contrario, che sarà una delle tante occasioni perse. Ma che, almeno, si sappia bene chi sta da una parte o dall’altra. Perché non abbiano a piagnucolare e a prenderci per i fondelli quando tocca a loro imbattersi in certe mostruosità della nostra giustizia.
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