Quarant’anni fa, a Milano, moriva ammazzato Walter Tobagi, giovane e brillante giornalista del Corriere della Sera. A sparargli furono Marco Barbone e Mario Marano, esponenti di un gruppo denominato Brigata XXVIII Marzo; che, quando furono arrestati, iniziarono a collaborare con i magistrati, per cui in seguito trascorsero solo pochi anni in prigione.
Marco Barbone, durante il processo, disse che avevano scelto di colpire Walter Tobagi perché era un intelligente osservatore del terrorismo, e per questo era più pericoloso dei comuni giornalisti di regime. La verità è che quasi tutti i componenti della macabra Brigata erano figli della borghesia milanese, i quali avevano abbracciato il fanatismo marxista-leninista, assai in voga negli anni di piombo; e aspiravano ad entrare nelle Brigate Rosse, grazie alla loro impresa, come capi e non semplici affiliati.
Dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, la lista delle vittime del terrorismo aveva continuato ad allungarsi. I “nemici”, per i terroristi, non erano più solo i politici di alto livello, ma anche persone comuni, come l’operaio Guido Rossa dell’Italsider, ammazzato nel gennaio 1979 perché si opponeva all’infiltrazione delle Brigate Rosse nella fabbrica; oppure rappresentanti della magistratura, come il giudice istruttore Emilio Alessandrini a Milano o il professor Vittorio Bachelet, vicepresidente del Csm, colpito a morte in un corridoio dell’università la Sapienza.
Walter Tobagi, il 28 maggio 1980, non fu il primo giornalista a cadere sotto i colpi dei terroristi: prima di lui era stato ucciso dalle Brigate Rosse Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa; mentre altri, come Indro Montanelli, erano stati “solamente” gambizzati.
Ma il suo omicidio sollevò subito degli interrogativi inquietanti. Infatti, ci fu chi vide nel suo essere stato un socialista, che in passato aveva lavorato anche all’Avanti e non nascondeva le sue simpatie per Bettino Craxi, un motivo in più per venire preso di mira dai militanti della lotta armata.
Fu proprio il vicedirettore del Corsera di allora, Berbiellini Amidei, a dichiarare che i suoi colleghi chiamavano Walter Tobagi il “Craxi-driver” (che per molti aveva il valore di un vero e proprio marchio d’infamia), anche se poi negò l’ipotesi del suo isolamento all’interno della redazione del quotidiano. Ma resta un dato di fatto storico che contro il leader del Partito socialista in quel periodo si era diffuso, nel mondo della sinistra comunista, un sentimento di odio, che in qualche modo si riversava anche sugli uomini a lui più vicini.
Fu lo stesso Bettino Craxi a sospettare la presenza di mandanti occulti dietro l’attentato della Brigata XXVIII Marzo. Prove di tutto ciò non vennero mai fuori, ma il modo con cui fu condotto il processo contro gli assassini del giornalista – i cui fiancheggiatori non furono mai individuati -, spinse Craxi ad entrare in aperto conflitto con la Procura di Milano, con le conseguenze ben note negli anni delle inchieste di Mani pulite.
È molto improbabile che Marco Barbone e Mario Marano avessero ricevuto l’ordine da qualcuno di ammazzare Walter Tobagi. Ma è certo che un brillante giornalista che si occupava di terrorismo e si definiva socialista riformista, in quegli anni veniva considerato un pericoloso reazionario da colpire; e non solo negli ambienti del terrorismo e della sinistra extra-parlamentare.
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