Penso che una parte del “Recovery Fund” destinato all’Italia dovrebbe essere speso per sistemare la giustizia italiana: l’inefficienza, la lentezza, la disorganizzazione della giustizia hanno un costo civile, sociale ed economico, troppo elevato. Si stima che il sistema giustizia crei un danno di oltre 18 miliardi al sistema economico e che disincentivi investimenti stranieri per oltre trenta miliardi di euro.
Occorre un richiamo forte perché si formi, in Parlamento, una ampia maggioranza, attorno ai principi garantisti del nostro ordinamento costituzionale. Sarebbe cosa buona e giusta che il Presidente della Repubblica rivolga un messaggio alle Camere, che richiami il Parlamento all’unità nazionale per definire le regole di una giustizia da Paese civile, armonizzata con quella degli altri Paesi Europei, per esempio sul diritto del lavoro, sul diritto societario, sul diritto finanziario e tributario, sulla prescrizione, sulle intercettazioni, sulla corruzione, sul sistema carcerario.
Non si può andare avanti a colpi di maggioranza, ogni due per tre, su temi così delicati. Bisogna dare un assetto della giustizia di lungo periodo: non può essere materia di maggioranza e di opposizione. E sarebbe bene arrivare finalmente alla separazione delle carriere e ad una forma certa di responsabilità dei magistrati. Il PM non dovrebbe rilasciare interviste, fare dichiarazioni o annunci o conferenze stampa, dovrebbe agire con atti formali, con la dimostrazione provata in Tribunale delle sue accuse. Sono troppi gli arresti “cautelativi”, che riempiono le carceri italiane di detenuti in attesa di giudizio, con gravi violazioni dei diritti dell’uomo, sanzionate anche dalla Corte europea. Sono troppe le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari, le irragionevoli durate dei processi, che pesano anche sulle finanze pubbliche.
In quanto presidente del Consiglio superiore della magistratura, sarebbe bene anche che richiamasse il Parlamento con un messaggio chiaro ed esplicito a che si ponga fine al discredito dei magistrati consumato da loro stessi. E non è solo un problema di modalità di elezione del Consiglio superiore della magistratura: riguarda anche la tempistica e le modalità di nomina degli incarichi giudiziari. Sarebbe buona cosa – e forse sarebbe una norma giuridica da adottare – che un magistrato non vada in televisione o rilasci interviste: il ruolo di magistrato richiede riservatezza e un basso profilo pubblico a tutela del principio dell’imparzialità, non è e non può essere un personaggio “politico”.
Nelle ultime ore vengono alla luce, nelle intercettazioni pubblicate, vicende e comportamenti poco edificanti. Non è una novità certo che gli incarichi giudiziari vengano assegnati attraverso una “lottizzazione” tra le correnti della magistratura: è storia antica, che per decenni gli organi di informazione hanno fatto finta di non sapere. Ed è risaputo del rapporto distorto tra organi di informazione e vertici della magistratura inquirente, che insieme spesso, a far tempo dal 1992, imbastirono una campagna mediatico giudiziaria, con tanto di proclami ed evocazioni populiste e peroniste. Di fatto si sono venuti configurando due poteri assoluti prevalenti sugli organi della democrazia rappresentativa. Un apparato dello stato che esercita una funzione è diventato un “potere” che si è appoggiato sul “quarto potere” (la stampa) e sul “quinto potere” (la televisione), che sono stati così ben felici di assicurarsi l’impunità. C’è ampia materia per scrivere della casta dei magistrati e dei giornalisti: ma faceva più successo (anche economico) scrivere contro gli unici poteri convalidati e sostenuti da un voto popolare: i partiti, il parlamento, il governo. “Sbatti il mostro in prima pagina” è la regola concordata tra inquirenti e giornalisti. Un giornalista, Frank Cimini, ha scritto, molto tempo addietro, che “oggi la vera separazione delle carriere dovrebbe essere quella tra giornalisti e magistrati”. Si riferiva al famoso patto fra il Corriere della Sera (direttore Paolo Mieli), la Repubblica (direttore Eugenio Scalfari con Antonio Polito,vicedirettore), la Stampa (direttore Ezio Mauro) e l’Unità (con direttore quella anima bella e pura di Walter Veltroni) che si concretizzava la sera, nella composizione dei titoli di prima pagina, come ha rivelato Piero Sansonetti, che allora era all’Unità. “Alcuni lo definiscono un patto indecente: per me era del tutto naturale e andava nella direzione degli interessi degli editori”. Aggiungo io, anche degli interessi dei “padroni del vapore”, dei rappresentati titolati della classe economica dominante, che, guarda caso, non è mai stata (se non di striscio) scalfita dalle inchieste, che ha gettato in pasto all’opinione pubblica gli outsider e che voleva mano libera, delegittimando gli organi politici e istituzionali della Repubblica.
È dunque ora di sciogliere il Consiglio superiore della magistratura, senza dilungarsi a pensare a un nuovo sistema elettorale. E qui non bastano i richiami al senso di responsabilità, occorre invitare tutti quanti a dimettersi e questo può farlo solo la suprema autorità costituzionale, a tutela della unità nazionale e del prestigio delle istituzioni e della stessa magistratura.
È venuto il momento che tutto non sia come prima, per la giustizia italiana.
“La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi” Buona notte, e buona fortuna
(questo articolo è stato ripreso dal sito http://www.ilmigliorista.eu con il consenso dell’amministratore del sito)
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