La scorsa settimana il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha rigettato l’istanza dell’ex Procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, contro la delibera del CSM che considerava di fatto vacante il suo vecchio ufficio, quello appunto di Procuratore generale di Catanzaro.
Per capire la vicenda, e le sue implicazioni, bisogna risalire alla fine del 2019. A dicembre Lupacchini viene intervistato dal Tgcom. Erano i giorni in cui il capo della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri, aveva avviato una poderosa operazione anti ‘ndrangheta che aveva portato a 334 arresti. Lupacchini, che è il superiore diretto di Gratteri, dice di non essere stato informato dell’azione intrapresa da Gratteri e definisce come evanescenti molte delle operazioni intraprese dalla Procura di Catanzaro. Si scatenano subito le polemiche. Nonostante Lupacchini sia uno dei magistrati più esperti nella lotta alla criminalità organizzata si muovono subito il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi di Magistratura Democratica, e il Ministro Alfonso Bonafede che chiedono alla sezione disciplinare del CSM di trasferire Lupacchini ad altra sede, come misura cautelare.
Alla fine di gennaio del 2020 il CSM trasferisce Lupacchini a Torino come sostituto Pg per avere “delegittimato” l’azione di Gratteri. Nel frattempo avvia la procedura per occupare la posizione che si è resa libera a Catanzaro. È contro questo provvedimento che Lupacchini ricorre sostenendo che essendo di tipo cautelare la misura adottata nei suoi confronti, il giudizio di merito deve essere discusso, è ancora lui formalmente il titolare del posto.
Questo ricorso che è stato respinto la scorsa settimana. Di conseguenza la procedura per assegnare il posto temporaneamente vacante a Catanzaro va avanti.
Non ci interessa ora entrare nel merito di questa vicenda, anche se sarebbe estremamente interessante, ci interessa solo sottolineare l’estrema severità adottata dal CSM nel caso in questione.
E qui scatta, anche senza volerlo, il paragone con la vicenda Bonafede – Di Matteo. I fatti sono noti: Di Matteo, nel corso di un’intervista televisiva e successivamente in altre dichiarazioni, ha accusato il Ministro della Giustizia di essersi fatto condizionare dalla mafia in una decisone che afferiva alla sua discrezionalità. Bonafede ha replicato che non era vero e che forse si era trattato solo di un malinteso. Ora i casi sono due. O Di Matteo dice la verità, e in questo caso Bonafede non può restare al suo posto, oppure travisa i fatti. Ma anche se dice la verità, e tanto più se travisa i fatti, mette in atto qualcosa di più di una “delegittimazione”, non di un altro magistrato ma addirittura del Ministro della Giustizia. Ma perché su Di Matteo, in attesa del giudizio di merito, nessuno chiede di adottare la misura cautelare del trasferimento? Perché il CSM, di cui fra l’altro Di Matteo è membro, non esamina almeno il palese conflitto di interesse? E perché, visto che l’azione penale è obbligatoria, nessun PM interviene?
Sul Ministro Bonafede può agire solo la politica. Per ora la maggioranza fa quadrato e l’opposizione tenta la strada della sfiducia individuale che però quasi certamente non porterà a niente.
Ma sia per l’uno che per l’altro l’unica cosa che non si può assolutamente fare è quella di far finta di niente, di credere insomma al “gigantesco equivoco” teorizzato da quel fustigatore di costumi a corrente alternata che è Travaglio che si muove con il chiaro intento di mettere sulla vicenda una pietra tombale.
Il silenzio assordante di questi giorni è un vero e proprio scandalo che mina ogni sia pur minima credibilità dello Stato. I cittadini hanno il diritto di sapere come sono andate veramente le cose ma soprattutto hanno il diritto di vedere applicare la legge, sempre e comunque, indipendentemente da chi sono i protagonisti dei fatti.
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