Interessante la discussione aperta fra “esperti di politica e di istituzioni ” da SoloRiformisti sul futuro delle Regioni. Mi sembra che gli interpellati, Vannino Chiti, Ugo Finetti, Carlo Fusaro, Nicola Cariglia, Ugo Baldi, Carlo Tognoli e Vincenzo Maria Saraceni a cui va aggiunto, per le riflessioni svolte, l’amico Alessandro Petretto, traccino una linea di riflessione abbastanza comune. Pur con alcuni elementi di differenziazione su come uscire dalle difficoltà istituzionali di “questo momento”, si nota purtuttavia una forte convergenza di fondo.
La prima è di metodo. Si legge nei commenti una sorta di fastidio per come in Italia si sta affrontando il tema delle Regioni sulla scorta della non brillante esperienza fatta in questa prima fase di crisi da coronavirus. Una non brillante esperienza che, è bene subito sottolineare, ci parla di differenze di non poco conto fra le diverse Regioni e, cosa ancora più importante in questa discussione, non ci mette di fronte ad uno Stato centrale particolarmente autorevole, efficiente ed efficace, in tutte le sue articolazioni. Insomma di fronte alla “Babele istituzionale e politica” che ha regnato nel paese, specialmente nella prima fase della crisi, puntare esclusivamente a disquisire sull’eccessivo ruolo delle Regioni è parso rispondere più ad una esigenza assolutoria delle manchevolezze dello Stato che ad una seria analisi della debolezza intrinseca del nostro “sistema federale”. Anche perché, come dice Fusaro ”federalismo regionalismo et simili significano strutturalmente differenziazione (se no a che servono?). Questo – culturalmente – la società italiana non l’ha ancora capito o l’ha capito in minima parte a 50 anni dalla nascita delle regioni”.
Insomma le Regioni hanno fatto la loro parte, con grandi errori ma anche con un dinamismo territoriale non indifferente, e lo Stato ha arrancato, come al solito. Stretto fra l’incapacità politica di gestire una situazione complessa e la farraginosità normativa del proprio modello istituzionale che appare debole nelle funzioni di coordinamento e di indirizzo e che non prevede norme particolari in caso di emergenza nazionale. Qui ha ragione Chiti quando ci ricorda che “Quando emerga ..un’emergenza di portata nazionale, il governo può proporre di attivare la clausola di supremazia, la conferenza stato – regioni esprime un parere, il Parlamento approva o respinge. Altrimenti non avremo un unico centro di indirizzo e controllo ma un moltiplicarsi di scelte, interventi, regole. È ciò che si è visto con l’esplodere dell’epidemia coronavirus”.
Insomma questa crisi può essere l’occasione che costringe il paese a ripensare il proprio modello federale. Ma evitiamo le riforme fatte sull’onda di un “mood momentaneo” dell’opinione pubblica e su suggerimento di un qualche articolo di giornale attento più a scovare “capri espiatori” che soluzioni strutturali a deficienze e criticità istituzionali.
Sul merito mi sembra che siano venute diverse sollecitazioni ad approfondire e ad intervenire sull’attuale configurazione istituzionale.
Intanto sul rapporto, mai risolto, della Regione come ente di legislazione e come ente di gestione. Il modello originario era molto spostato sulla prima accezione. La Regione legifica, indirizza e controlla. Le norme e la programmazione sono gli strumenti principali di intervento. Poi nel tempo, in particolare nell’ultima fase con lo scioglimento delle province, si è appesantita anche la seconda funzione. E su questo punto mi sembra che ci sia una convergenza generale a ritornare al modello originario. Concordo con quanto dice Finetti che le Regioni “devono .. tornare a essere organi di programmazione e di legiferazione. Molti consigli regionali – a cominciare dalla Lombardia – hanno ridotto ai minimi termini l’attività legislativa e anche la figura del presidente come “governatore” si è rivelata un’altra esagerazione” Il che lascia aperta la discussione su come reintrodurre la provincia o qualsiasi altro livello intermedio fra lo Stato e la Regione e il Comune. Insomma su questo punto non si può che convenire con Baldi che “l’auspicio è .. quello di ripensare velocemente l’organizzazione dello Stato sul territorio, per rendere i suoi strumenti, siano essi Regioni o Province allargate, in grado di dare le opportune risposte alle esigenze, ai bisogni economici e sociali del territorio”
Quindi la sanità. Qui la discussione è più complessa perché si tratta di una funzione importante sia funzionalmente che economicamente parlando. Quasi 120miliardi di euro distribuiti alle Regioni e quasi 700 mila dipendenti rappresentano una delle più importanti voci di spesa e di organizzazione dello Stato. E, nelle singole Regioni, si tratta della voce che assorbe oltre i due terzi della massa finanziaria complessiva. La discussione su questo punto diventa allora centrale. Mi sembra che, anche in questo caso, non ci sia da parte degli interpellati una visione liquidatoria del ruolo delle Regioni. Peraltro, se vogliamo le Regioni, non ci si può poi meravigliare che, anche su un tema come questo, ci siano delle differenze fra i diversi territori. Quindi il problema non sono le differenze quanto la mancanza di coordinamento, di indirizzo e di controllo da parte dello Stato. Con Finetti ci sentiamo di respingere l’accusa alle Regioni sulla organizzazione della Sanità “ La polemica contro il regionalismo è sbagliata e, soprattutto, accentrare il SSN è una brama di potere centrale non condivisibile”. Si possono avere delle differenze concettuali e organizzative sulla Sanita’ da parte di ogni singola Regione ma occorre che certi servizi di base (i LEA: livelli essenziali di assistenza), certi livelli di efficienza e certi livelli di corretta gestione vengano realizzati a prescindere dal modello prescelto. L’autonomia regionale non può significare che lo Stato abdica alla propria funzione anche di fronte a gestioni del tutto fuori dalla buona e trasparente conduzione del servizio. Tognoli individua bene la situazione “La sanità è regolata da una legge che si chiama ‘Servizio Sanitario Nazionale’. La sola definizione fa capire che il potere di intervento è del governo, che può introdurre nuove leggi, per la solidarietà, e stabilire priorità per la tutela della salute pubblica.” E che questo sia un problema lo rileva la battuta di Chiti sul sistema di commissariamento della Sanità da parte dello Stato, allorquando sorgono problemi prevalentemente finanziari, “certo se si nomina commissario un presidente di Regione che in quanto tale non è riuscito nell’impresa, si va poco lontano! “. Come si fa a “chiedere la soluzione al responsabile del problema!”.
Questo del rapporto fra Stato centrale e Regioni è un tema rilevante non solo sulla sanità ma anche su tutti gli altri settori. Certo nella Riforma del 2016, respinta con Referendum dal popolo italiano, una qualche pezza si metteva su questo punto. Ma spesso tale rapporto è reso difficile non dalle norme scritte ma piuttosto dalla condotta istituzionale. Nel titolo V attuale, anche se in maniera non netta, esiste già la possibilità da parte dello Stato di coordinare e controllare determinate funzioni anche se di competenza regionale. Eppure si è assistito in questi anni ad un venire meno della presenza dello Stato che ha abdicato ad ogni sia pur minima funzione. Per cui lo Stato piano piano è scomparso lasciando alle 20 autonomie la più ampia libertà di fare ma anche di disfare funzioni importanti nei propri territori. Basti pensare al Trasporto pubblico e alla funzione di indirizzo e di controllo dello Stato che ha perso nel tempo qualsiasi capacità di “dire qualcosa” pur di fronte a gestioni talvolta disastrose da parte di alcune Regioni. O basti pensare ai tempi biblici che ci sono voluti per unificare i colori delle emergenze metereologiche fra le diverse Protezioni civili regionali. Eppure solo una lettura “sbagliata” ha potuto portare a questo lungo, e talvolta contestato, processo di risoluzione. Eppure si trattava di far capire in tutto il territorio cosa significano i diversi colori delle emergenze senza dover studiare 20 regolamenti locali di protezione civile!
Su questo punto la convergenza fra gli interpellati è massima. Il sistema “federale” va portato a conclusione non smontato. Magari anche rivedendo funzioni e dimensioni ottimali dei diversi soggetti istituzionali. Dice giustamente Saraceni che bisogna “procedere ad una coordinata revisione degli ambiti territoriali ed, eventualmente, del numero delle autonomie sulla base di una dimensione ottimale, rendendo queste ultime, così, in grado di offrire un servizio adeguato ai cittadini in riferimento alle rispettive competenze”. Quello che serve non è “meno regionalismo” ma “più Stato”. Uno Stato che sappia affrontare i temi con livelli tecnici adeguati al ruolo e non con una superficialità da chi ha smesso di occuparsi di certi temi perchè “sono competenza delle Regioni”. E, diciamolo, con una autorevolezza che è data certo dal livello, anche soggettivo, della Politica ma principalmente dalla chiarezza dei ruoli delle diverse istituzioni. Anche in questa crisi, se si deve dare un giudizio sommario sulla base delle prime impressioni di questi mesi di crisi, quello che emerge in maniera insoddisfacente non sono tanto le singole difficoltà delle Regioni quanto la debolezza dello Stato centrale a svolgere una funzione unificante e di forte indirizzo. Per questo anche il tema dell’autonomia differenziata non è un “lusso da abbandonare”. E non solo per le Regioni del Centro-Nord. Dice Cariglia “Una ben studiata autonomia differenziata può forse aiutare a stimolare energie “endogene” nelle regioni del sud che, peraltro, hanno già tratti di grande diversità fra loro. Ma la condizione è che prima ancora sia lo Stato a riformarsi, diventando interlocutore autorevole e riconosciutamente primario di tutte le Regioni”.
Ed è su quello che si deve puntare. Guai a pensare che il riportare a uno Stato centrale, spesso inefficiente al pari se non di più delle Regioni e con una bassa capacità di programmazione e di gestione strategica, le funzioni oggi assegnate alle Regioni possa essere la soluzione per il paese.
E questo vale sulla Sanità, sui problemi del divario fra Nord e Sud e sul coordinamento di importanti politiche sia di tipo economico che territoriale e infrastrutturale.
Il tema non è riportare funzioni allo Stato ma, dopo 50 anni di esperienza regionale, creare davvero uno stato Federale, a differente livello di autonomia e magari perché no con qualche Regione in meno, ma finalmente con uno Stato centrale che sia degno di questo nome.
Enrico Vidali
Una analisi ed riflessione di grande valore. Suscettibile di passare indenne da qualsiasi factchecking. Il problema centrale di questo scalcagnato Paese, suscettibile di ulteriore, irreversibile declino a causa della pandemia, risiede nell’efficientamento dell’ordinamento. Dei suoi perni centrali e dell’amministrazione periferica. Spero che la vostra analisi contribuisca a togliere dalle secche una questione nodale per il progresso dell’Italia e per la sostenibilità del sistema liberaldemocratico.