Purtroppo, la crisi COVID 19 non è una guerra e non assomiglia né alla crisi del ’29 né a quella del 2008. In tutti questi casi le condizioni di domanda e offerta di beni, come le condizioni finanziarie erano profondamente diverse da oggi e, soprattutto, la crisi di oggi, che piaccia o no, è del tutto originale. È fatta di crisi di domanda e di offerta contemporaneamente, di profonda incertezza sulle effettive prospettive a breve termine ma di adeguata convinzione (da parte dei principali sistemi paese e player economici internazionali) che a medio e lungo termine si potranno ricreare condizioni opportune perché i diversi sistemi paese e geopolitici possano di nuovo tentare di massimizzare le proprie potenzialità. In altre parole, potrebbe essere illusorio per l’Italia immaginare uno scenario positivo composto da un vortice di sfiga che colpisca tutti i sistemi paese e geopolitici occidentali e non e che, pertanto, faccia ripartire tutti da zero, senza vecchi debiti e senza pregresse condizioni di svantaggio.
Per questo è originale. Nessun vincitore di una guerra, nessun baratro oscuro di domanda o di incertezza finanziaria ci attende, se il blocco si prolunga come atteso per 2-4 mesi. Quello che ci attende è una sorta di apnea dopo la quale si ricominciano a creare la condizione di competitività per ciascuno degli attori (stati, imprese, sistemi economici). Per questo sono in corso schermaglie tattiche fra stati all’interno dell’Unione Europea e fra i diversi grandi sistemi geopolitici (Cina, Russia, USA, Europa): tutti stanno cercando, con il minor sforzo possibile, di creare le condizioni per essere al restart del gioco competitivo più pronti, lesti, snelli e preparati degli altri. Naturalmente, la lunghezza della apnea è sicuramente rilevante: può modificare le prospettive e trasformare la crisi attuale in una profonda crisi di domanda o finanziaria (il crollo del prezzo del petrolio e di altre materie prime potrebbe esserne un primo segno), modificare la forza di risposta a seconda del permanere dell’incertezza in merito al superamento della crisi sanitaria, mettere in dubbio la tenuta di sistemi di moneta (come l’euro) o sistemi bancari che nascondono sotto il tappeto gravi debolezze da anni (come quelli cinesi). Ma la sostanza attuale appare questa e la lettura che sembra interessante da ascoltare non appare essere quella delle nobili menti intellettuali mondiali (occorre ripensare tutto, cogliamo questa occasione per fare penitenza eccetera ) ma quella del pragmatico posizionamento per il dopo (chiacchiera chiacchiera, che io intanto mi preparo a ripartire in posizione migliore della tua).
L’Italia, in questo senso, appare debolissima e con armi particolarmente spuntate per molti motivi: a causa della qualità ed affidabilità politica e istituzionale, a causa del suo posizionamento nelle catene internazionali del valore, a causa del permanere di una scarsa produttività del sistema nazionale (ovvero, a determinati input immessi nel sistema nazionale corrispondono meno output della media dei paesi europei e dei principali paesi sviluppati, ovvero meno servizi, infrastrutture, educazione, prodotti nel loro complesso), a causa di uno stock di debito pubblico particolarmente alto e non collegato ad investimenti. Per questo, è poco raccomandabile immaginare di uscire da questa crisi con il solo risultato di aver salvato il salvabile e con un debito pubblico accresciuto di 200 miliardi di euro almeno (da quel che ci dicono le revisioni dei conti pubblici). Ed appare poco raccomandabile affidarsi esclusivamente alla speranza di essere trainati dalla ripresa futura (così come siamo adesso) non appare desiderabile né credibile.
Ma qualcosa si può comunque fare. Vediamo di presentare gli elementi di principio in parole semplici.
La crisi sta portando, per i comuni cittadini, ad una redistribuzione del reddito fra chi è legato alla spesa pubblica direttamente e chi ne risulta slegato. In poche parole, è in corso un arricchimento relativo di una parte della società, quella che vive di stipendi pubblici e pensioni, verso l’altra. Piuttosto che immaginare un nuovo sistema di “tassa e spendi”, potrebbe essere sufficiente pensare ad un modello di riequilibrio dinamico ed innovativo che, a partire da uno strumento di equità durante la crisi stessa, giunga al progressivo snellimento del peso della PA e della spesa pubblica nel PIL e nella vita di tutti i giorni.
La crisi sta evidenziando ancora, nel nostro settore produttivo, la carenza di investimenti in innovazione e ricerca, dopo 3/4 anni di ripresa favoriti dalle politiche collegate a Industria 4.0. Risorse abbondanti per fare grandi politiche di incentivo, probabilmente, non saranno disponibili, ma è disponibile la leva fiscale: se lo Stato propone sconti fiscali per investimenti nelle imprese (ma anche per le capitalizzazioni), tendenzialmente ne aumenta la redditività e la capacità di crescita. Se non ora quando? Lo so che la Curva di Laffer e analoghe teorie non piacciono a tutti, ma se funzionano lo fanno probabilmente in queste condizioni.
La crisi sta evidenziando la debolezza profonda del nostro arcaico stato amministratore, del nostro diritto amministrativo, del nostro sistema di gestione delle procedure che interessano la PA (con particolare riferimento a quelle autorizzatorie). Non si tratta di una questione da poco ma non illudiamoci: non si risolve se non con mosse radicali. Molto è stato detto e scritto in questo senso ma le mosse si possono dividere in tre grandi parti: limitare al massimo le condizioni di annullamento delle procedure (sostituendo con multe e danni); adottare per il lavoro pubblico regole nuove; ridurre tempi e complessità delle procedure autorizzatorie.
La crisi sta evidenziando, inoltre, la tendenziale insostenibilità della principale fonte di squilibrio strutturale del nostro sistema finanziario: le pensioni e la dinamica le stesse sul PIL. Prescindendo da chi riscuote pensioni con il metodo contributivo (puro) ovvero dalla rendita di quanto ha versato, l’unico modo è creare una norma costituzionale che definisca un sistema di paletti che impedisca al sistema pensionistico di incidere più di un tot sul reddito disponibile (di tutti i non pensionati).
Infine, i beni pubblici. Siamo una nazione che vede bloccata la potenzialità di molti beni a causa o di una appropriazione privata consolidata di beni di tutti (una per tutti: le concessioni demaniali delle spiagge), oppure per incapacità del soggetto pubblico di rendere questi beni disponibili effettivamente, senza lasciarli marcire, degradare, o semplicemente lasciarli drammaticamente sottoutilizzati. Ma siamo proprio così sicuri che sia il momento per continuare a sopportare questa palese inefficienza e ingiustizia Basterebbe una regola semplice: se non utilizzato per almeno 5 anni (o non oggetto di un serio programma avviato di recupero e riutilizzo), un bene pubblico viene messo in vendita con asta con le stesse regole delle aste giudiziarie. E le sovrintendenze? Se un bene si degrada, i vincoli dovranno essere ridotti a quel che possibile mantenere. Per le concessioni d’uso di beni pubblici, se non collegate ad un rigoroso programma di investimento per l’erogazione di servizi e funzioni pubbliche (tipo autostrade, illuminazione pubblica eccetera), si potrà prevedere che nessuna concessione può durare più di 15 anni né essere passata in eredità (se il titolare risulta una persona fisica).
A questo punto della futuribile esposizione rimane comunque il debito pubblico. Certo, sarebbe più sostenibile ma comunque altissimo. In un modello di patto sociale come quello qui descritto, una forma di consolidamento parziale, fondato su di un patto fiscale fra cittadini e Stato e un rendimento reale (o corretto in caso di inflazione rilevante) potrebbe portare al successo una emissione di titoli del debito legati alla vita del contraente (o comunque non superiore a 50 anni ed ereditabili, se ci sono eredi). Certo, c’è il rischio di un effetto distorsivo verso il mercato finanziario, ma se questa leva si limita al necessario (10-20% del debito pubblico) nel tempo diventerà estremamente sopportabile.
Concludendo, come dice qualcuno veramente autorevole, le crisi come quelle che stiamo vivendo portano a sperimentare ed accelerare il tempo, rendendo praticabili proposte prima impensabili (pensiamo alle forse equivocate proposte di Draghi al NYT). Se non ora, quando?
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