Per il governatore del Veneto, Zaia, la fase della chiusura delle aziende e delle attività commerciali può dirsi già conclusa. Un po’ meno impetuoso è stato Fontana in Lombardia, ma comunque ha annunciato che l’inzio del mese di maggio coinciderà con l’inizio della fase 2.
Al decisionismo liberista dei due governatori leghisti, ha subito risposto il presidente della Campania De Luca, con il solito stile iperbolico che lo ha reso popolare nei social; dicendo che è pronto a chiudere i confini della sua regione (porti compresi?) a chiunque arriverà dal Nord.
Le direttive del governo centrale, espresse nei dpcm, vengono dunque adattate alle diverse realtà regionali, con una facilità e libertà tali da mettere in dubbio l’autorità dello Stato sulle istituzioni locali.
Ma il conflitto tra il centro e la periferia non è una questione solo di questi giorni, anche se l’emergenza della pandemia lo ha esasperato e reso più evidente. In realtà si tratta di un conflitto che risale agli anni in cui venne fatta la pessima e frettolosa riforma del titolo V della Costituzione. E proprio quella riforma, che delegò alle Regioni due settori fondamentali per la vita dei cittadini (sanità e istruzione), è all’origine della disastrosa situazione odierna; per cui esistono in Italia sanità di serie A e sanità da paese sottosviluppato; sistemi scolastici più aperti all’innovazione tecnologica e al mondo del lavoro, e altre realtà in cui la dispersione tocca percentuali da brivido e i risultati dei test di valutazione Invalsi sono scarsissimi.
Inutile piangere sul latte versato, ma – è il caso di ricordarlo – la riforma costituzionale del 2016, sciaguratamente bocciata dagli italiani in un referendum, avrebbe fatto chiarezza sugli ambiti decisionali di Stato e Regioni.
Di fatto, ora ci troviamo ad assistere al triste spettacolo delle continue polemiche tra il governatore della Lombardia e il capo del governo Conte, mentre gli italiani avrebbero bisogno di certezze e di una guida capace di prendere decisioni valide “erga omnes”. Invece è tutto uno scaricabarile, un continuo rimandare.
Sembra quasi di essere tornati in una fase pre-unitaria; a quegli stati regionali che, a partire dalla fine del Quattrocento, portarono l’Italia verso una lenta ma continua decadenza, ed aprirono la strada agli eserciti stranieri e, di conseguenza, al dominio da parte delle potenze europee.
Il primo che arrivò con il progetto di prendersi il regno di Napoli fu il re di Francia Carlo VIII: nel 1494 varcò tranquillamente le Alpi, entrò a Milano con tutto il suo esercito dotato di modernissimi cannoni, poi andò a Firenze dove Piero de’ Medici gli aprì le porte della città, quindi a Roma e infine a Napoli. Nessuno provò a fermarlo, anche perché i signori italiani avevano eserciti composti prevalentemente da mercenari, che non erano certo in grado di contrastare l’esercito di una potente monarchia nazionale come la Francia.
Soltanto un anno dopo, il papa Alessadro VI (lo spagnolo Rodrigo Borgia) riuscì a mettere insieme una coalizione, cercando di impedire al re di tornarsene impunemente in Francia; ma ormai era troppo tardi.
Il regionalismo aveva rivelato a tutti sovrani d’Europa la debolezza dell’Italia; e dopo Carlo VIII arrivarono con i loro eserciti il re di Spagna Ferdinando il Cattolico e un altro re francese, Luigi XII. E nel 1527 il nuovo re di Spagna nonché imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo d’Asburgo, scatenò contro il papa Clemente VII un’orda di mercenari luterani, che attraversarono l’Italia e saccheggiarono Roma, dove seminarono morte e distruzione per diverse settimane.
Il grande Niccolò Machiavelli lanciò un grido d’allarme, avendo intuito che la condizione di frammentazione politica rendeva la Penisola una facile preda per le monarchie europee. E, com’è noto, auspicò che ci fosse un Principe in grado di prendere saldamente in mano il comando di un movimento di riscossa nazionale: “Quali porte se gli serrerebbono? Quali popoli li negherebbono la obbedienza? Quale invidia se gli opporrebbe? Quale Italiano gli negherebbe l’ossequio? Ad ognuno puzza questo barbaro dominio”.
Anche l’Italia dei nostri giorni ha bisogno di ritrovare la sua unità nazionale. Ha bisogno, se non di un Principe, almeno di un governo solido, con una larga maggioranza adeguata alla gravissima emergenza sanitaria, economica e sociale. E certamente di un leader autorevole che non si faccia sorpassare dal decisionismo dei governatori, ma sia capace di prendere lui le decisioni utili al Paese e di farle rispettare.
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