Il covidismo è la nuova ideologia nazionale, e covidista è il regime che quell’ideologia ha instaurato: un regime, si direbbe, perfetto per il nostro Paese.
Abbiamo scoperto in queste settimane che costruire un sistema autoritario in Italia è facilissimo. Salvo poche, lodevolissime eccezioni, nessun giurista o intellettuale o opinionista ha battuto ciglio al cospetto della sospensione drastica delle libertà costituzionali per mezzo di un Dpcm; il Parlamento non si riunisce, non discute e non vota mentre il governo emette decreti a raffica e il presidente del Consiglio insulta l’opposizione in diretta tv; le forze dell’ordine sono libere di fermare, intimidire, multare chiunque senza che il Viminale ritenga di intervenire spiegando a poliziotti e carabinieri che il nemico non è il cittadino inerme, ma il virus; i media, anziché vigilare sui diritti dei cittadini, incitano alla caccia all’uomo; i vicini di casa denunciano i vicini di casa e la delazione è diventata, proprio come nel Ventennio, una virtù civile; la retorica della guerra e il nazionalismo straccione (nel paese di Caporetto e dell’Otto settembre!) alimentano i sentimenti peggiori, diffondendo da un lato un panico del tutto ingiustificato, e dall’altro l’autocommiserazione che tanto ci è cara; l’arbitrio è divenuto la misura di tutte le cose.
Ma abbiamo anche scoperto che non avremo un regime autoritario, perché in Italia lo Stato non esiste. Il governo crea commissari e commissioni, emana decreti e norme, ma a due mesi dall’esplodere della crisi non è in grado di produrre e distribuire neppure le mascherine; l’opposizione urla e strilla senza costrutto alcuno sfarfallando in un’eterna, volgarissima campagna elettorale; esperti e scienziati si moltiplicano e si contraddicono ogni giorno replicando un po’ pateticamente le idiosincrasie dei rispettivi danti causa politici; molte Regioni del Nord e del Sud hanno di fatto proclamato la secessione senza che nessuno obietti nulla; le norme sono dapprima annunciate, poi modificate, poi riscritte, e quando infine vengono emanate ogni Regione e ogni Comune le vanificano o le modificano secondo il capriccio del feudatario locale; non c’è nessuna linea di comando visibile e, di conseguenza, non c’è nessuno che si assuma la responsabilità di ciò che fa. Intanto le procure hanno cominciato ad aprire fascicoli su fascicoli, le inchieste si moltiplicano e andranno avanti per anni e anni, fino a quando l’ingente dispiego di risorse e lo sputtanamento generale non si esauriranno nella solita bolla di sapone.
Abbiamo poi scoperto che l’antieuropeismo, un tempo marchio di fabbrica della destra sovranista e della Casaleggio Associati, è diventato il pensiero unico cui si abbeverano i politici e i media. Noi, dicono praticamente tutti i leader e i commentatori italiani, abbiamo il diritto di avere dall’Europa tutti i soldi che vogliamo, ma l’Europa non ha il diritto di chiedere come li spenderemo e quando li restituiremo. Aver sperperato per decenni le finanze pubbliche, essersi indebitati fino al collo, avere il più alto tasso di evasione fiscale e di lavoro nero e il più basso indice di produttività, aver lasciato alle mafie il controllo indiscusso di intere aree del Paese, bruciare ogni anno miliardi di euro in un apparato statale inefficiente e corrotto, sperperare altri miliardi per mandare in pensione i sessantenni o dare la paghetta ai bamboccioni – tutto ciò non conta nulla: ma se paesi più virtuosi, più educati e più seri di noi si permettono anche soltanto di sollevare un dubbio o di chiedere una garanzia, ci mettiamo a frignare e a scalciare e a puntare il nostro ditino indignato contro l’orrida Europa che, poverina, ha il solo torto di essere un posto normale. A nessuno del resto viene in mente che i debiti – siano eurobond o Mes o “prestito nazionale” – vanno restituiti: abbiamo il sole e il mare, noi, che c’importa dei soldi.
Abbiamo infine scoperto che in Italia non esiste più alcuna cultura del lavoro, cioè del benessere e del progresso. Siamo il Paese che ha chiuso per primo, e saremo l’ultimo a riaprire: e a nessuno viene in mente che, se non lavoriamo, tanto e subito, non potremo mai risollevarci. La più grande preoccupazione del sindacato, nel dopoguerra, è stata la riapertura delle fabbriche, perché senza lavoro non c’è il pane, e senza il pane non ci sono neanche le rose: oggi il sindacato ha come unica missione quella di impedire alla gente di lavorare. Tutto il mondo – tutto il mondo! – muove dal presupposto che bisogna ripartire, e poi si chiede come farlo nelle condizioni di sicurezza migliori; in Italia si muove dal presupposto che non bisogna fare niente, e intanto si discute sui loculi di plexiglas da montare sulle spiagge. Il merito e la conoscenza sono vizi da punire severamente: a scuola si tornerà chissà quando, ma tanto siamo tutti promossi.
In realtà, a pensarci bene, in queste settimane non abbiamo scoperto proprio nulla: il covidismo non ci ha mostrato niente di nuovo. I caratteri nazionali italiani si ripropongono oggi in tutta la loro immedicabile viziosità, tutti insieme e tutti potenziati: ma sono sempre quelli. Per questo non trarremo alcun insegnamento da ciò che sta accadendo: perché è già accaduto, perché accade ogni volta.
Questa, potrebbe essere catastrofica.
Fabrizio Rondolino
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