Nostra inchiesta su ruolo e funzioni delle Regioni a 50 anni dalla nascita. La pandemia ha messo in evidenza alcune criticità. L’opinione di Vannino Chiti, scrittore, già parlamentare, ministro del PD e Presidente della Toscana.
Quali le motivazioni delle forze politiche che votarono a favore? Quali le preoccupazioni? Ricordo il giudizio di Ugo La Malfa «Abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina»
Le Regioni sono previste in Costituzione e il rinvio della attuazione di questa norma, a parte le preoccupazioni di Ugo La Malfa su un non controllo dei centri di spesa, furono prevalentemente di ordine politico. Si temeva, come poi effettivamente avvenne, che in tre di esse, Emilia Romagna, Toscana e Umbria, si insediassero governi Pci-Psi. L’avere deciso la loro istituzione fu una decisione importante di quel primo centro – sinistra. Le prime elezioni ci furono nel 1970. Alle spalle vi erano le grandi lotte operaie della metà degli anni sessanta, che migliorarono dopo il miracolo economico italiano le condizioni di vita del mondo del lavoro, e i movimenti giovanili del sessantotto. L’idea guida era quella di un ampliamento della partecipazione democratica e di un rinnovamento dello Stato, della sua capacità di rispondere in modo efficace e puntuale alle domande di cittadini. Se si va a rileggere il dibattito appassionato che accompagnò la fase costituente regionale si vedrà che queste furono le speranze e gli obiettivi posti.
La regionalizzazione della sanità ha portato potere e risorse grandi alle regioni (la spesa per la sanità è l’80% dei bilanci): l’esperienza ad oggi cosa ci dice? È stato un boccone avvelenato che ha accentuato le differenze nella tutela della salute a livello territoriale? Ha indebolito il principio di solidarietà tra regioni in situazioni di emergenza come quella della tutela dal virus? Bisogna cambiare, ma come?
Per il peso anche finanziario che la sanità ha nei bilanci delle Regioni, come lei sottolinea, merita un ragionamento compiuto. Lo Stato centrale deve approvare i livelli essenziali delle prestazioni, dell’assistenza. Una Regione se il suo governo e la sua pubblica amministrazione sono efficaci, può andare oltre. A nessuna può essere consentito di non dare ai cittadini servizi fondamentali. Significherebbe differenziare gli italiani rispetto ai loro diritti. Anche per superare questo deficit storico erano nate le Regioni. Dove si registri un fallimento, già ora i governi nazionali hanno il potere di commissariare. Certo se si nomina commissario un presidente di Regione che in quanto tale non è riuscito nell’impresa, si va poco lontano! La grande criminalità deve essere liquidata. La piena credibilità del nostro paese in Europa e nel mondo è compromessa dall’abnorme debito pubblico e da territori a forte presenza illegale. È possibile. Ci sono progressi da non sottovalutare. Associazioni della società civile, mi viene in mente Libera ma ce ne sono tante altre, la magistratura e le forze dell’ordine hanno dato un contributo che ha fatto segnare passi avanti. Guai a rinunciare. Piuttosto bisogna guardare a quelle forme nuove di criminalità che condizionano l’economia, senza bisogno di dominio territoriale. Non sono solo presenze italiane ma internazionali. Esigono una cooperazione che va oltre la dimensione nazionale e dei singoli Stati
Il divario nord – sud si è accresciuto in questi anni: crescita debole al sud, più alta disoccupazione precarietà, ripresa dei flussi migratori più accentuati tra i laureati, sempre più aree sono sotto il controllo della criminalità organizzata: c’è un filo di speranza per una inversione di tendenza? La società civile può imporre una correzione di rotta oppure è una partita persa?
A cinquanta anni dall’istituzione delle Regioni è non solo legittimo ma doveroso aprire un confronto per approfondire il percorso, vedere le luci e le ombre. Lo Stato centrale non ha saputo rinnovarsi, su temi di competenza regionale non ha dato le linee guida previste e direi obbligatorie per evitare frammentazione territoriali, ampliarsi di divaricazioni nello sviluppo. Le Regioni non poche volte hanno rivendicato poteri senza riuscire a modificare profondamente il modo di esercitarli. Talora hanno privilegiato anche di fronte a sfide di ordine nazionale ristrette vedute localistiche. Non risolto è a mio giudizio il tema della responsabilità fiscale, delle risorse compartecipate con lo Stato centrale e di quelle di diretta pertinenza. Detto questo ritengo che sarebbe perdere un’occasione se ora cominciasse un gioco di rimpallo delle responsabilità tra centro e periferie o uno scontro preliminare sulle materie da riattribuire allo Stato centrale. Sappiamo che il ritorno allo Stato centrale di alcune di esse come energia, reti di comunicazione materiali e immateriali è scontato. Il tema fondamentale è però un altro e si chiama clausola di supremazia. Ce n’eravamo occupati già al tempo del governo Prodi ma dalla fine di quell’esperienza nel 2008 a oggi non si è purtroppo concretizzato niente. Quando emerga un tema, una sfida, un’emergenza di portata nazionale, il governo può proporre di attivare la clausola di supremazia, la conferenza stato – regioni esprime un parere, il Parlamento approva o respinge. Altrimenti non avremo un unico centro di indirizzo e controllo ma un moltiplicarsi di scelte, interventi, regole. È ciò che si è visto con l’esplodere dell’epidemia coronavirus.
Se a fine 2019 la discussione era centrata sul conflitto per la autonomia rafforzata si è passati oggi, in virtù del gravissimo impatto della pandemia, alla condanna senza appello delle regioni sic e simpliciter. le regioni possono ancora servire per rendere migliore l’Italia, per garantire il futuro dei suoi giovani? E se sì, quali nodi essenziali si devono affrontare?
Spesso in Italia facciamo come il pendolo, passiamo cioè da una specie di federalismo esasperato e senza fondamento, a un’esaltazione acritica del centralismo. Non mi pare che lo Stato centrale così com’è funzioni. Cercherei di non dimenticarci di quello che è successo in Spagna con la Catalogna. Non ritengo al tempo stesso che un federalismo somigliante agli staterelli italiani del 1800 possa esserci di giovamento. Dobbiamo rinnovare lo Stato centrale e occorrono quelle riforme tante volte annunciate e mai potute portare a compimento. Almeno proviamo a dare stabilità ai governi ad esempio con l’introduzione della sfiducia costruttiva. Quando un governo è insediato per mandarlo a casa ci vogliono le elezioni oppure una mozione sottoscritta dalla maggioranza assoluta dei parlamentari con l’indicazione di un nuovo primo ministro. E proviamo a dotarci, ne ho già parlato, della clausola di supremazia. Allora Stato centrale e Regioni potranno in modo ordinato fare camminare il nostro paese superando squilibri storici come quelli tra nord e sud, a cui lei prima ha fatto riferimento. Per me l’aspetto decisivo è il quadro al cui interno si pensano e poi si realizzano le riforme istituzionali, coinvolgendo i cittadini, senza presunzioni giacobine. Questo quadro è la costruzione di una democrazia federale europea. In questo orizzonte bisogna riconsiderare compiti dello Stato centrale, delle Regioni e delle città. In caso contrario ripetiamo discussioni già archiviate dallo scorrere degli anni. Di cosa dovrà occuparsi una democrazia federale europea? A mio giudizio di politica estera, di difesa e sicurezza, di indirizzi macroeconomici, di clima, di riequilibrio solidale dello sviluppo nei suoi territori. Il suo presidente dovrà essere eletto dai cittadini. Il parlamento, che dovrà controllare il governo europeo, dovrà essere eletto sulla base di una medesima legge elettorale e non, come oggi, sulla base di tante e differenti norme, che ne riducono in partenza peso e piena autorevolezza. Non pensi che questo sia un parlare d’altro. È parlare di una riforma degli Stati, delle Regioni, dei Comuni in Italia e sul nostro continente. In caso contrario il nostro discorso, i nostri approfondimenti guarderanno al passato anziché misurarsi con il futuro, anzi con le sfide che già segnano il nostro presente e che rischiano di trascinare nel declino non solo l’Italia ma ogni nazione europea, nessuna esclusa.
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