A 50 anni dall’istituzione delle Regioni è naturale riflettere su tale istituto e trarne alcune valutazioni. Nelle pagine seguenti tenterò questa non facile operazione con due avvertenze. Primo, si tratta di indicazioni di un economista e quindi carenti sotto il profilo giuridico-istituzionale, secondo eviteremo di subire l’influenza degli accadimenti che si sono succeduti durante la gestione della crisi Covid-19, anche se da questi c’è molto da imparare in senso negativo e positivo.
Per esprimere una valutazione dell’ente regione si deve fare riferimento a parametri legati a tre giudizi di valore fondamentali: (i) il grado di equità e uniformità nella fornitura e prestazioni di servizi di natura essenziale; (ii) l’autonomia e discrezionalità esercitate per lo svolgimento di funzioni non essenziali, per le quali il criterio della sussidiarietà individua nelle Regioni l’ambito più consono; (iii) l’efficienza, nel senso dell’uso razionale delle risorse scarse, e quindi della minimizzazione dei costi unitari in relazione ai benefici delle prestazioni individuali. Il settore della sanità pubblica è al riguardo cruciale e emblematico, sia per importanza di ordine quantitativo (in media il 7,5% del PIL, oltre il 15% della spesa corrente primaria della P.A., quasi l’80% della spesa delle Regioni), sia per importanza in relazione all’essenzialità delle prestazioni. A fronte di un’uguaglianza “formale” deducibile dai livelli di spesa pro-capite raggiunti nelle diverse Regioni, sul grado di uguaglianza sostanziale del soddisfacimento dei diritti sociali, conseguiti con la spesa regionale, i risultati in linea generale sono stati insoddisfacenti. Alcune Regioni riescono a soddisfare i livelli essenziali ma con difficoltà rappresentate dalle lunghe liste di attesa; altre, non riuscendo neppure in tal modo, ricorrono ad un diffuso e costoso processo di trasferimento dei propri assistiti in Regioni più operative. Il patologico fenomeno dell’import–export dei pazienti è un segnale evidente di una carenza fondamentale dell’istituto regionale. Non è solo un problema di organizzazione, ma anche di carente garanzia di diritti fondamentali, traducendosi in un più generale problema di diseguaglianza dei territori e dei cittadini che li abitano.
Sui risultati deludenti delle Regioni molto ha anche influito il meccanismo di finanziamento statale che, ai sensi L.D. 42/2009 di attuazione del Titolo V riformato, doveva essere indirizzato a coprire la differenza tra i fabbisogni standardizzati di spesa e i gettiti standardizzati dei tributi regionali “assegnati” al finanziamento dei diritti sociali. A oltre 10 anni siamo ancora lontani dell’aver messo a punto il sistema. Il Titolo V della Costituzione prevede, all’art. 117, che, per le funzioni destinate al soddisfacimento di diritti sociali (la lettera m) del Comma 2), sia lo stato centrale a determinare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), come vincolo di responsabilità politica dello stesso nei confronti dei cittadini, utenti e contribuenti, da cui il criterio di perequazione basato sul fabbisogno standard. Questo meccanismo di finanziamento ha ovviamente finalità equitative, ma è rilevante anche in termini di incentivi all’efficienza, dal momento che il riferimento a valori standardizzati esalta il significato di trasferimento stabilito indipendentemente dalla spesa effettivamente sostenuta, la così detta spesa storica. Il fabbisogno standard è dunque una grandezza indipendente dai comportamenti degli operatori, per cui tendenzialmente un finanziamento su questa base spinge al contenimento dei costi di fornitura. Tuttavia, è solo con i livelli essenziali di assistenza (LEA) nella sanità che si ha un’applicazione parziale, con il D.Lgs 68/2011, di questa normativa. Pertanto, occorre che il meccanismo di definizione dei fabbisogni riferiti ai LEP sia esteso anche ad altri diritti sociali ex art. 117 del Titolo V.
In merito ai tributi regionali, un sistema di tipo semi-federale, come quello prefigurato nel Titolo V, dovrebbe riconoscere un ampio margine di autonomia per consentire di valorizzare le differenziazioni che sono alla base di un razionale decentramento delle competenze e delle attività. Gli attuali tributi assegnati sono di fatto tributi interamente erariali e limitatamente modificabili; non solo, anche le compartecipazioni ai tributi erariali non sono quelle “riferite al territorio”, come previsto originariamente in Costituzione (art. 119), ma di fatto trasferimenti verticali, tanto che sarebbe opportuno ripristinarli esplicitamente insieme a vere compartecipazioni. Occorre poi individuare un tributo proprio delle Regioni ad ampia base imponibile e ad aliquote manovrabili. Se sarà ancora l’IRAP, malgrado tutte le controindicazioni che hanno portato ad un suo svuotamento nel tempo, che diventi autenticamente regionale, come l’addizionale IRPEF. Sull’autonomia e discrezionalità nel condurre attività e politiche economiche a livello regionale, le Regioni sono perlopiù schiacciate dal peso vincolante della spesa sanitaria che “spiazza”, talvolta in modo esclusivo, le altre attività nel campo dei trasporti, ambiente e agricoltura, commercio e turismo, istruzione professionale, assistenza ecc.
Quanto al finanziamento della sanità, nel ribadire l’obbiettivo dell’uniformità territoriale di livelli essenziali – ma rinunciando alla ricorsa alla onnicomprensività di questi, che debbono essere in ogni caso finanziariamente sostenibili – la copertura potrebbe essere assicurata, come in altri paesi europei, da un’assicurazione sociale integrativa estesa a tutti per sviluppare, insieme al welfare aziendale, un secondo pilastro sanitario.
In merito all’efficienza delle strutture regionali, i risultati sono differenziati sul territorio ma complessivamente non positivi. Ad esempio, la distribuzione del numero dei dipendenti regionali per 1000 abitanti, varia quasi sistematicamente in funzione inversa rispetto alla qualità-quantità delle attività svolte e delle prestazioni effettuate. La conclusione è che alcune Regioni esibiscono un eccesso di personale, per lo più concentrato in attività amministrative back-office. Ciò ha portato ad una distribuzione territoriale dei costi unitari molto differenziata, per cui le prime ancora abbozzate, e per lo più avversate, procedure di benchmarking, con riferimento a costi standard, hanno denunciato evidenti, talvolta clamorose, storture.
I carenti risultati sono anche dovuti all’assenza di una adeguata rete relazionale che molte Regioni non riescono a sviluppare con gli enti locali del loro territorio. Invece, la Regione dovrebbe avere tra le sue principali missioni proprio quella di svolgere funzioni di delega, soprattutto per quanto concerne la prestazione di “servizi di prossimità” (il welfare locale), e di coordinamento della finanza pubblica. Al riguardo, si può ricordare come la LD 42/2009 prevedesse l’emanazione di leggi regionali sui tributi degli EELL su basi imponibili non erariali ma nessuna Regione ha però provveduto, anche a seguito di un orientamento contrario della Consulta, e come l’art. 10 L. 243/2012 sugli equilibri di bilancio assegni alla Regione un ruolo cruciale nella formazione e nel riparto degli spazi di indebitamento pubblico. Infine, i numerosi conflitti di competenza tra Stato e Regioni hanno, da un lato, paralizzato l’iniziativa delle Regioni attive e propositive e, dall’altro, fornito alibi a quelle meno performanti. Andrebbe quindi ripresa l’idea di eliminare le competenze concorrenti, pur ammettendo, in certi settori di competenza statale, un ruolo applicativo e regolamentativo delle Regioni, come previsto dalla riforma costituzionale bocciata dal referendum del 4.12.2016.
Non è quindi improprio giungere alla conclusione che le Regioni costituiscano in Italia un sistema istituzionale scarsamente equo, malgrado i proclami, pochissimo autonomo, costoso e sostanzialmente inefficiente. Questo giudizio negativo non può essere temperato evocando le eccellenze territoriali, che vi sono, né individuando Regioni che complessivamente conseguono risultati più che soddisfacenti. È il sistema delle venti Regioni, alcune manifestamente troppo piccole, nel suo complesso che risulta carente. E, per finire, la tipologia delle Regioni a statuto speciale, così come è attualmente prefigurata, appare ormai anacronistica. La loro origine è storica e politica, e non più attuale, e non ha basi e giustificazioni economiche attendibili. Altra cosa sarebbe invece una differenziazione delle competenze e attività regionali ottenuta attraverso un processo di validazione degli obiettivi e delle performance, sulla base di quanto previsto dall’art.116 del Titolo V. Occorre quindi riprendere il progetto di sviluppare forme di regionalismo asimmetrico, con autonomia tributaria effettiva per chi richiede il regime differenziato, tramite compartecipazioni a tributi erariali ad aliquote differenziate. In quest’ottica si potrebbe anche ripensare il modello di organizzazione del Servizio sanitario nazionale prevedendo la centralizzazione della competenza, con un sistema di strutture periferiche non elettive, tipo le District Health authorities britanniche, per garantire la diffusione dei servizi sul territorio e attribuire, sfruttando le procedure di regionalismo asimmetrico, la competenza regionale solo per alcune macro-Regioni che ne facessero argomentata richiesta.
Lascia un commento