È molto difficile questa volta anche solo trovare le parole giuste per introdurre personaggi e argomenti nuovi.
Siamo tutti sospesi in una realtà che definire surreale è poco e per questo vogliamo per prima cosa fare a tutti i nostri migliori auguri, nella speranza che questa difficile congiuntura si risolva presto.
La criticità del momento che ci troviamo a vivere innesca in ciascuno di noi il desiderio di evadere dalla quotidianità carceraria a cui siamo al momento condannati.
Antiche angosce si riaffacciano quando sentiamo gli esperti fare confronti con la terribile devastante epidemia di spagnola vissuta dai nostri nonni e bisnonni.
E forse sarebbe stato logico che vi aspettaste un articolo che parlasse di pandemie e magari di quali siano i vari approcci per sconfiggerle o almeno contenerle.
Ma questo ormai da molti mesi lo fanno persone altamente competenti e qualificate, quindi preferiamo orientarci verso argomenti diversi, nella speranza di distrarci un po’.
Si è recentemente spenta, all’età di 101 anni, una donna straordinaria, che ha avuto un impatto enorme sul progresso scientifico: Katherine Johnson, una matematica statunitense che con la sua incredibile capacità di calcolo, ha dato un contributo fondamentale ai programmi spaziali americani, in particolare alle missioni Apollo che nel 1969 portarono l’uomo sulla Luna.
Abbiamo tutti in mente l’immagine del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che le conferiva la Medaglia Presidenziale della Libertà, la più alta onorificenza civile assegnata in America.
E lei, con garbo e orgoglio, indossava la stella aurea smaltata di bianco circondata da cinque aquile con le ali spiegate.
Questo articolo però non vuole essere, e non sarà, la mera e scontata celebrazione di una scienziata donna in quanto donna, ma preferiremmo venisse letto come l’inno a una mente straordinaria che, lavorando dal banco di un istituto di ricerca, ci ha permesso di fare un viaggio fino ad allora realizzato solo dalla fantasia sfrenata di Ludovico Ariosto.
Fino a quel momento molti di noi anzi, la stragrande maggioranza di noi, non la conosceva. Aveva sempre mantenuto, con estrema discrezione, un profilo basso e uno stile di vita frugale, dedicata alla famiglia, al lavoro e al coro della chiesa.
Ma sotto l’aspetto di esile nonnina si celava quel carattere d’acciaio che le aveva consentito di superare i pregiudizi razziali e le discriminazioni intollerabili subite dai cittadini americani di colore negli anni ‘50 e ‘60, fino a imporsi come una delle figure più fulgide e influenti della storia della scienza del secolo scorso.
La sua straordinaria e pionieristica storia è raccontata anche in un film del 2016: “Hidden figures” uscito in Italia con il titolo “Il diritto di contare”.
Era originaria della Virginia, nel sud degli Stati Uniti, e sappiamo che cosa voleva dire in un passato davvero troppo recente, vivere in uno degli Stati in cui era attivo il Ku Klux Klan.
Eravamo nel periodo delle marce per i diritti civili, quando il reverendo Martin Luther King, che affascinava le piazze con i suoi messaggi di tolleranza, venne ucciso dal fanatismo razziale.
Katherine si dimostrò geniale fin da bambina ed i suoi genitori, pur essendo di modesta estrazione, compresero immediatamente l’importanza di incoraggiare i suoi studi.
Non era affatto scontato per una ragazzina di colore in quell’epoca, tanto più se proveniente da una famiglia numerosa, venire sostenuta così energicamente.
Ma alle volte il talento ha bisogno della fortuna per emergere e la fortuna, si sa, aiuta gli audaci.
Comincia così a scriversi una storia vera ma poetica quanto una favola.
Terminata la scuola dell’obbligo si pose il problema di come poter mandare questa ragazzina talentuosa al liceo.
Nella contea di Greenbrier, nella quale la famiglia risiedeva, non c’era possibilità di istruzione superiore per gli studenti di colore.
Fu così che si iscrisse alle “scuole alte” nella contea di Kanawha.
A soli quattordici anni ottenne il diploma di scuola superiore.
Iscritta al college della Virginia Occidentale, Katherine frequentò tutti i corsi di matematica disponibili, ampliando il suo già straordinario bagaglio di conoscenze.
Basti pensare che furono organizzati corsi appositi di matematica avanzata solo per lei. E qui la fortuna diede nuovamente una mano al talento.
Fu così che al college, grazie al sostegno di alcuni professori illuminati, come W. W. Schieffelin Claytor, il terzo afroamericano a ottenere un dottorato in matematica, e alla scienziata Angie Turner King, che l’aveva seguita già negli anni del liceo, riuscì a conseguire la laurea a soli diciotto anni, ovviamente a pieni voti.
Nonostante questo, Katherine incontrò però altri ostacoli a causa del suo essere una ragazza afroamericana in un contesto ancora molto chiuso e razzista.
Dovendosi mantenere, colse al volo la prima opportunità lavorativa che riuscì a trovare e divenne maestra di musica, matematica e francese in una piccola scuola elementare per bambini di colore.
Ma qualcosa cominciava a muoversi.
Nel 1939, in seguito a una sentenza della Corte Suprema del Missouri, la Virginia Occidentale decise di abbattere le barriere razziali che ancora erano in vigore per l’iscrizione alle scuole di specializzazione: Katherine Johnson e altri due studenti maschi furono i primi afroamericani ammessi alla graduate school della West Virginia University.
Katherine lasciò quindi il suo incarico di insegnamento ed entrò nel corso di matematica.
Poco dopo si sposò con James Goble e scelse di interrompere gli studi e dare la priorità alla famiglia.
Divenne madre per ben tre volte.
Donna, madre, scienziata.
E tornò anche ad insegnare.
Poi nel 1952 la svolta definitiva: venne a sapere da un parente che la NACA, “National Advisory Committee for Aeronautics”, l’agenzia che sei anni dopo diventerà la NASA, si era messa a cercare talenti da assumere nella sezione “West Area Computing” della sede di Langley, in Virginia.
Katherine si candidò e superò con facilità le selezioni: la sua responsabile, Dorothy Vaughan, decise con lungimiranza di assegnarla a un progetto della divisione di ricerca sul volo, e fece sì che il prima possibile questo contratto di lavoro venisse stabilizzato.
La Johnson analizzava i dati raccolti nel corso dei voli di prova degli aerei, per investigare le cause di incidenti e per apportare migliorie tecniche.
Solo quattro anni dopo, alla fine del 1956, un evento terribile le sconvolse la vita: perse il marito a causa di un male incurabile e rimase da sola a crescere i loro tre figli.
Siamo negli anni in cui cominciava a delinearsi la sfida tra le grandi potenze americana e sovietica nella corsa allo spazio che fu inaugurata ufficialmente nel 1957, con il lancio del satellite sovietico Sputnik.
Di conseguenza il governo americano decise di dare nuovo impulso alla ricerca scientifico-ingegneristica e in questo nuovo scenario Katherine Johnson non fu più soltanto una matematica di talento, ma divenne immediatamente una risorsa indispensabile.
Ci preme sottolineare che non era la sola donna di colore dalle capacità straordinarie che si trovò a lavorare in quel contesto.
Altre cavalcarono l’Ippogrifo con lei.
Donne che, se durante l’orario di ufficio avevano l’esigenza di recarsi ai servizi igienici, erano costrette a servirsi di toilettes che si trovavano in un edificio diverso da quello in cui lavoravano.
Ma pochi alla NACA conoscevano quanto Katherine la geometria analitica, e nessuno era competente quanto lei nei calcoli computerizzati per la navigazione spaziale.
Così, divenuta a partire dal 1958, ingegnere aerospaziale all’interno della neonata NASA, contribuì in prima persona allo storico documento “Notes on space technology”.
Questo report tecnico avrebbe costituito una fondamentale e straordinaria base di partenza, o forse dovremmo dire base di lancio, per i programmi spaziali degli Stati Uniti.
L’anno dopo, a Katherine fu affidato il calcolo della traiettoria e della finestra di lancio per il primo volo spaziale con equipaggio, la missione Mercury-Redstone 3 del 1961, condotta da Alan Shepard, che ebbe in sorte l’onore di essere il primo astronauta statunitense a volare nello spazio.
Pochi mesi dopo, nel 1962, in occasione del volo orbitale di John Glenn con la Mercury Friendship 7, la NASA ricorse per la prima volta a computer elettronici per i calcoli delle traiettorie e Katherine giocò ancora un ruolo chiave.
John Glenn infatti si fidava solo di lei e diede un aut-aut alla NASA: avrebbe volato solo a condizione che i risultati ottenuti dal computer venissero supervisionati, ed eventualmente corretti, dall’infallibile penna rossa di Katherine Johnson.
Ci vide giusto e il volo si rivelò un successo, segnando un punto di svolta nella competizione spaziale tra USA e URSS.
In seguito Katherine lavorò gomito a gomito direttamente con calcolatori avanzatissimi, potendo godere finalmente della stima indiscussa di tutto l’ambiente scientifico internazionale.
Nel 1970 le toccò in sorte l’impresa più ardua, sia da un punto di vista professionale che umano: la partecipazione al salvataggio dell’equipaggio dell’Apollo 13.
Gli astronauti riuscirono fortunosamente a ritornare tutti sani e salvi sulla Terra, ma l’avventura rimarrà impressa per sempre nelle nostre menti attraverso la voce di Tom Hanks: “Abbiamo un problema Houston”.
Katherine lavorò a molti altri programmi ingegneristici di assoluto rilievo e nel 1986 andò meritatamente in pensione, rimanendo però un punto di riferimento insostituibile e continuando a inspirare almeno due generazioni di ragazze determinate a emergere negli studi scientifici.
S’impegnò a fondo in questa sua nuova “missione”, soprattutto a vantaggio delle giovani studentesse indigenti.
Nel 2015, all’età di 97 anni, come abbiamo già ricordato all’inizio, il presidente Obama le ha conferito la Medaglia Presidenziale della Libertà, la più alta onorificenza civile americana.
Due anni dopo la NASA ha deciso di dedicarle un centro di ricerca nello Stato in cui era cominciata la sua favola, in quella Virginia che con lei era stata matrigna.
Accanto a Katherine Johnson collaborarono attivamente altre scienziate di colore, tra cui la già citata Dorothy Vaughan e Mary Jackson, la cui storia può essere letta in dettaglio sul libro di Margot Lee Shetterly “Hidden Figures”, a cui il regista Theodore Melfi si è ispirato per realizzare il film omonimo.
La pellicola si è guadagnata la candidatura a tre premi Oscar nel 2017.
Alla morte della Johnson, James Bridenstine, l’amministratore della NASA ha dichiarato:
La nostra famiglia della NASA è triste nell’apprendere la notizia che Katherine Johnson è deceduta questa mattina a 101 anni.
È stata un’eroina dell’America e la sua eredità come pioniera non sarà mai dimenticata.
Adesso ci sentiamo di fare qualche osservazione sul ruolo delle donne nella scienza, una presenza ancora tabù dato che la vulgata considera la mente femminile più portata per gli studi umanistici.
È vero: nel mondo accademico matematici, fisici e ingegneri sono quasi tutti maschi.
Nel campo medico-biologico l’altra metà del cielo sta invece emergendo in misura maggiore.
C’è però una costante nella vita di tutte le donne scienziate: andando a spulciare nelle varie biografie, si scopre quanto si siano energicamente impegnate anche in attività sociali, promuovendo l’istruzione soprattutto fra le ragazze dei paesi in via di sviluppo.
Tutte hanno evidentemente interiorizzato la lezione e capito l’importanza di incentivare l’istruzione del mondo femminile, avversata nei secoli passati.
Forse questa è la caratteristica delle donne, e cioè il continuo tentativo
di creare collegamenti possibili, di tessere una rete capace di sostenere e far emergere le potenzialità di chi, per causa di forza maggiore, si trova in una posizione di enorme svantaggio.
Con questa piccola considerazione ci lasciamo per adesso, e speriamo di avervi tenuto compagnia in questo momento tanto particolare, in cui ogni spunto di evasione è il benvenuto.
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