Sommario: 1. 30 marzo 2020: una data triste per l’Ungheria e per l’Europa – 2. Lo Stato costituzionale antidoto alla tirannia della maggioranza (parlamentare e non) – 3. Sui principi e sulle regole di diritto – 4. La salute come diritto fondamentale e come interesse collettivo – 5. Breve excursussulla libertà di circolazione – 6. Della sovranità, e dei suoi limiti, nella Costituzione italiana – 7. La sovranità ai tempi della democrazia rappresentativa – 8. La democrazia costituzionale: una creatura complessa e fragile che spetta a noi difendere.
- 30 marzo 2020: una data triste per l’Ungheria e per l’Europa
Lo scorso 30 marzo il parlamento ungherese, con 137 voti a favore e 53 contrari, ha concesso i “pieni poteri” al Primo Ministro Viktor Orbán. Si tratta di una “concessione” senza limiti di tempo, giacché al premier sarà possibile prolungare sine die lo stato di emergenza. Egli avrà anche il potere di sospendere l’efficacia delle leggi con semplice decreto e di introdurre misure straordinarie anche in contrasto con la Costituzione ([1]).
Questa iniziativa ha suscitato l’immediato allarme della Commissione europea, dell’Alto Commissario dell’ONU per i diritti dell’uomo e del Consiglio d’Europa. In realtà c’è ben poco da essere sorpresi, visto il carattere del regime ungherese, che ormai da tempo si sta allontanando dalle sponde di uno stato di diritto e democratico.
C’è da auspicare che l’Unione Europea intervenga con la nettezza che il caso richiede, condannando l’operato di Orbán senza distinguo o esitazioni ([2]). Non è pensabile che possano essere accantonati la tutela dello stato di diritto e delle libertà fondamentali, tra i pilastri saldamente piantati sulla strada del faticoso cammino che una Comunità (originariamente) economico-mercantile decise di intraprendere nel perseguire l’ambizioso obiettivo di costruire una Comunità (anche) politica – obiettivo, peraltro, ben lungi dall’essere pienamente raggiunto.
Nessuna giustificazione, né formale né sostanziale, può discendere dal fatto che i pieni poteri siano stati conferiti da un’ampia maggioranza parlamentare. A tale proposito non sarà inutile una breve riflessione su alcuni punti fermi e irrinunciabili sul rapporto tra diritti e democrazia: i tratti fondamentali di quel che decenni orsono abbiamo scelto di essere (e, soprattutto, di non voler più essere).
- Lo Stato costituzionale antidoto alla tirannia della maggioranza (parlamentare e non)
Come ha ricordato il costituzionalista Stefano Ceccanti, il prossimo 10 luglio sarà l’ottantesimo anniversario del voto che nel 1940 attribuì i pieni poteri al Governo del Maresciallo Pétain, da cui nacque la triste esperienza del regime filo-nazista e antisemita di Vichy; in quella occasione solo 80 osarono votare contro, mentre ben 569 furono i voti a favore ([3]). Del resto, è altrettanto noto che anche un certo Adolf Hitler giunse al potere nel 1933 a seguito di elezioni popolari ([4]), come prima di lui era accaduto per un certo Benito Mussolini; e anche a loro furono conferiti i pieni poteri da un voto parlamentare. Voti di cui, di lì a poco, avranno a pentirsi amaramente non solo la Germania e Italia, ma l’intera Europa (e anche buona parte del resto del mondo) ([5]).
Ora, è il caso di ricordare che, proprio per evitare le degenerazioni (sempre in agguato, come dimostra da ultimo il voto ungherese) frutto di una “tirannia della maggioranza”, si è affermata nel secondo dopoguerra una forma di Stato diversa dalle precedenti: lo Stato costituzionale ([6]).
Lo Stato costituzionale – secondo una diffusa definizione – è una forma statuale nella quale il diritto continua ad essere prodotto dal legislatore e applicato dai giudici, ma legislatore e giudici sono a loro volta soggetti alle norme di una Costituzione cosiddetta “rigida” (perché non modificabile con una legge ordinaria).
La Costituzione, dunque, si pone al più alto livello del sistema, e al tempo stesso – per usare una felice immagine – costituisce il tronco da cui si dipartono i vari rami dell’ordinamento. Ciò anche per ovviare ad un’altra degenerazione di cui si erano macchiati i totalitarismi nati fra le due guerre: la sistematica violazione di diritti umani e libertà fondamentali perpetrata con lo strumento della legge (si pensi, ad esempio, alle famigerate leggi razziali). La legge divenne un dispositivo di vergogna, e la stessa legalità assunse i tratti dell’infamia. Del resto, come dirà Piero Calamandrei, la legge non è altro che uno stampo, nel quale si può… indifferentemente colare oro o piombo ([7]). Ma, dopo gli orrori delle persecuzioni e della guerra, non si poteva più rimanere “indifferenti”. Non dopo Auschwitz.
Ecco che allora si riscopre, attualizzandola, una teoria e una pratica che in realtà il modo occidentale aveva già sperimentato in alcune realtà (Stati Uniti) alla fine del Settecento: il costituzionalismo ([8]). Una teoria e una pratica per la quale diritti umani e libertà fondamentali non sono più considerati (soltanto) valori morali o politici, ma diventano veri e propri limiti giuridici al potere, assurgendo a “diritti” nel senso vero e pieno del termine, ossia suscettibili di tutela da parte dello Stato (ed in particolare dei giudici). In altre parole, lo Stato limita se stesso ed il proprio potere attribuendo ai cittadini (ma anche ai non cittadini) una sfera di intangibilità ed un fascio di facoltà la cui compressione può essere “autorizzata” soltanto a certe condizioni e comunque “coperta” da una serie di garanzie. Ad esempio, si può privare della libertà, per ordine dell’autorità giudiziaria, una persona gravemente indiziata di aver commesso un reato; non lo si può fare per ordine di un Ministro a causa dell’etnia, della fede religiosa o delle opinioni politiche.
Si tratta di un passo in avanti enorme, reso possibile anche da una costruzione teorica nella quale il concetto stesso di “norma giuridica” si modifica, ampliando il proprio campo in modo da ricomprendere non soltanto le regole (cioè prescrizioni “canoniche” che guidano direttamente la condotta, dicendo cosa è lecito, cosa è vietato, cosa è obbligatorio, ecc.), ma anche i principi ([9]). Ecco, una caratteristica fondamentale delle Costituzioni “rigide” novecentesche – e la nostra Carta non sfugge alla regola – è quella di contenere una notevole quantità di norme di principio.
- Sui principi e sulle regole di diritto
Come ha magistralmente ricordato da ultimo Gustavo Zagrebelsky, le norme di principio si riferiscono ad una serie di «acquisizioni» e «valori» che vengono considerati “oggettivi” e universalmente validi: dignità, pace, libertà, eguaglianza, salute, lavoro, istruzione, ecc. Ne è prova il fatto che, a differenza delle regole, la struttura delle norme di principio si esprime per lo più con il predicato “essere” (il diritto è…, la libertà è…, la salute è…, ecc.), cui segue un aggettivo qualificativo modale (inviolabile, incomprimibile, intoccabile, inalienabile, ecc.) che esprime un orientamento di favore (o contrario) rispetto al bene (o male) indicato nella norma di principio ([10]).
Mentre le regole si esprimono attraverso una “fattispecie”, cioè un fatto (facti species: immagini del fatto) al verificarsi del quale deve seguire una predeterminata conseguenza, i principi sono privi di fattispecie; e anche privi di conseguenze, se non in un senso molto generico e orientativo. Si può dire che alle regole si obbedisce (o disobbedisce), mentre ai principi si aderisce (o non aderisce).
Come insegnano autorevoli teorici del diritto ([11]), esistono vari tipi di principi. I più importanti dal punto di vista giuridico sono quelli che vengono definiti “principi regolativi”, come ad esempio «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge» (art. 3 comma 1, Cost.). I principi regolativi stabiliscono, solitamente, diritti individuali: alla dignità, alla vita, all’eguaglianza, ecc. Ciò comporta che, a certe condizioni, essi possano essere applicati direttamente dai giudici, esattamente come le altre regole. Questo accade, ad esempio, quando il legislatore lasci inattuato un principio regolativo, e questa inattuazione comporti la violazione di un diritto individuale: allora il giudice può “specificare” il principio costituzionale in una regola (implicita) e quindi applicare quest’ultima.
Un’altra categoria importante di principi sono i cosiddetti “principi direttivi”, cioè norme che stabiliscono interessi, beni, fini e obiettivi collettivi. (a differenza dei principi regolativi che, come si è visto, stabiliscono diritti individuali). Si tratta di una categoria molto ampia, in progressiva evoluzione in conseguenza dello sviluppo dello Stato sociale. Prendendo esempio dalla nostra Costituzione, si pensi al diritto all’eguaglianza sostanziale (art. 3, secondo comma), al diritto al lavoro (art. 4), al diritto alla salute (art. 32). Caratteristica precipua di questi principi è quella di non essere direttamente applicabili: in altre parole, essi necessitano di una legislazione di attuazione, altrimenti rimangono lettera morta (sul piano giuridico, s’intende). Tuttavia, anche questo genere di principi può trovare una sua (limitata) tutela da parte della Corte costituzionale nell’esercizio del controllo di costituzionalità. Infatti, anche se la Corte non può “ordinare” al legislatore di attuare un certo principio direttivo (ad esempio, che tutte le disuguaglianze sostanziali vengano rimosse), può però annullare una legge che si ponga in contrasto col principio stesso (ad esempio, una legge che introduca forme di disuguaglianza sostanziale ingiustificate).
Si può dire che i principi direttivi stabiliscono il fine (l’uguaglianza, il lavoro, la cultura, ecc.) lasciando al legislatore la scelta dei mezzi; una scelta che però non può mai contraddire il fine. Né può contrastare con un principio regolativo, ossia con un diritto individuale. Ad esempio, nel perseguire l’obiettivo del “diritto al lavoro” (cioè l’obiettivo di una occupazione tendenzialmente piena), il legislatore potrà optare tra la scelta di investire risorse pubbliche oppure, al contrario, di lasciare campo libero al mercato (scelta che rientra nell’ambito legittimo delle decisioni politiche sui mezzi), ma non potrà perseguire lo stesso obiettivo… deportando le persone o obbligandole a lavorare forzatamente. Ad impedirlo sono i principi (regolativi) a tutela della libertà degli individui, che si collocano su un rango superiore.
- La salute come diritto fondamentale e come interesse collettivo
Dal “diritto alla salute” previsto dall’art. 32 Cost. possiamo ricavare un esempio concreto – quanto mai attuale, purtroppo – sia di principio regolativo che di principio direttivo. Il primo comma infatti stabilisce: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Ecco, quando la disposizione definisce la “salute” come “fondamentale diritto dell’individuo” sta affermando un principio regolativo, ossia un diritto vero e proprio (il diritto individuale-salute), che può anche essere applicato direttamente dal giudice (se sto male e nessuno mi cura posso rivolgermi a un giudice che può imporre a un medico di farlo). Nella parte, invece, in cui la salute viene definita quale “interesse della collettività”, allora la Costituzione sta affermando un principio direttivo (la tutela del bene collettivo-salute), che dovrà essere attuato dal legislatore mediante una normazione di dettaglio che provveda a organizzare la Sanità in termini di strutture, risorse, competenze, ecc., di modo che solo a seguito di questa attuazione potranno sorgere altri diritti in senso proprio, cioè applicabili dal giudice. Il principio direttivo ha però l’effetto di essere direttamente operativo “in negativo”, per cui una legge che – putacaso – abolisse sic et simpliciter la sanità pubblica sarebbe certamente annullata per incostituzionalità. Quale che sia l’ampiezza numerica della maggioranza che l’ha votata.
Il richiamo alla salute come interesse collettivo, tutelato dall’art. 32 Cost., sembra particolarmente pertinente in un momento di piena emergenza epidemiologica come questo. Infatti, le varie misure messe in campo dall’apparato di Governo nazionale (Presidenza del Consiglio, Ministero della Salute, Dipartimento Protezione civile, ecc.) e regionale si basano, quanto al versante propriamente sanitario, sulla tutela della salute come diritto individuale (dei malati); quanto invece al versante “restrittivo”, esse sono fondate appunto sulla tutela della salute come interesse collettivo. È vero che con le misure adottate dal Governo nei decreti-legge e negli atti conseguenti, si va ad incidere su principi regolativi come la libertà di circolazione (prevista all’art. 16 Cost.). Nel caso specifico, però, vengono in… soccorso alla legittimità (costituzionale) delle misure intraprese i limiti che lo stesso art. 16 prevede possano essere fissati al diritto di circolare.
- Breve excursus sulla libertà di circolazione
Leggiamolo, allora, l’art. 16 (primo comma) della nostra Costituzione: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motividi sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche».
Come si vede, è la stessa Costituzione a prevedere che la libertà di circolare possa essere limitata, stabilendo però essa stessa i… (contro-)limiti di questa limitazione. Intanto, si prevede che le restrizioni debbano obbligatoriamenteessere motivate da ragioni di «sanità» o «sicurezza»: si introduce quindi una limitazione di tipo sostanziale e per “materia”, escludendo comunque ogni possibilità di restrizioni derivanti da ragioni politiche. In secondo luogo, si prevede che le restrizioni debbano essere disposte per legge (principio della “riserva di legge”). La disposizione contiene però una locuzione, «in via generale», di non univoca interpretazione. Secondo l’opinione prevalente, la locuzione sarebbe da interpretare come qualificativa del carattere “relativo” (e non “assoluto”) della riserva di legge: in altre parole, la legge ha il compito di prevedere limitazioni sul piano generale e astratto, potendo lasciare ad atti normativi secondari e di carattere esecutivo (decreti, ordinanze, ecc.) la concreta specificazione delle varie misure da adottare. E questa è l’interpretazione che viene data anche della giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 68 del 1964) e della Corte di Cassazione ([12]).
In effetti, il nostro ordinamento conosce varie ipotesi di atti aventi forza e valore di legge che contengono previsioni in via generale sulle varie ipotesi di limitazione della libertà di circolazione, demandando poi ad atti di normazione secondaria emessi dal potere esecutivo la specificazione puntuale delle misure. Si pensi, ad esempio, al d.lgs. n. 1 del 2018 (“codice della protezione civile”), che all’art. 25 prevede che, una volta deliberato (dal Governo, si badi) uno stato di emergenza nazionale, possano essere adottate ordinanze di protezione civile «in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea». Un altro esempio lo si ricava dall’art. 32 della legge n. 833 del 1978 (istitutiva del servizio sanitario nazionale), ove si prevede che il Ministro della sanità possa emettere «ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni», ed analogo potere di emettere ordinanze nelle medesime materie viene attribuito anche al Presidente della Giunta regionale e al Sindaco, con efficacia limitata ai livelli territoriali di competenza. Infine, possiamo richiamare l’art. 50 del d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico sugli enti locali), che prevede il potere del sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti «in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale».
Al di là di tali previsioni legislative, nulla vieta di introdurre nell’ordinamento ulteriori atti aventi forza e valore di legge (compresi, quindi, decreti-legge) che, nel rispetto dei limiti sostanziali previsti dalla riserva contenuta nell’art. 16 Cost., possano introdurre in via generale misure di limitazione alla libertà di circolazione motivate da ragioni di sanità e sicurezza, eventualmente attribuendo alla normazione secondaria la necessaria specificazione.
Queste ultime considerazioni ci forniscono il quadro concettuale nel quale inquadrare, sul piano costituzionale, le misure intraprese dal Governo italiano nel fronteggiare l’emergenza Covid-19. Una volta deliberato lo “stato di emergenza sanitaria nazionale” lo scorso 31 gennaio, il Governo ha emanato il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, recante “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19” (poi convertito in legge dal Parlamento il 5 marzo 2020), che ha introdotto alcune restrizioni alla circolazione e ad altre attività (religiose, scolastiche, sportive, ricreative, ecc.), conferendo poi al Governo (anzi, al Presidente del Consiglio dei Ministri) il potere di emettere ulteriori misure di dettaglio. Alcuni commentatori hanno sollevato perplessità sul testo del decreto-legge (ritenuto troppo vago e indeterminato); ma, soprattutto, si è dubitato della legittimità dei successivi decreti del Presidente del Consiglio (ben sette, prima che intervenisse un nuovo decreto-legge il 16 marzo e “riordinasse” tutta la materia), “accusati” di aver “debordato” rispetto ai poteri attribuiti all’esecutivo di intervenire. Secondo altri, invece, il tutto si sarebbe svolto nel rispetto della legalità costituzionale. Non è questa la sede per sviscerare appieno la questione: se la si riporta qui a grandi linee è per dimostrare la complessità (anche sul piano teorico-interpretativo) delle situazioni tutte le volte in cui vengano ad essere coinvolti principi di rango costituzionale.
Si tenga comunque conto che la legittimità di tutte queste misure può sempre essere sottoposta, da parte di chi si senta leso nei suoi diritti, al sindacato di un giudice (a seconda dei casi, giudice costituzionale, ordinario, amministrativo), il quale ha il potere di porre nel nulla le misure nel momento in cui queste dovessero violare i principi della Costituzione e le regole prescritte dalle leggi. E non c’è dubbio che tra i pilastri più solidi dello Stato costituzionale vi sia quello dell’autonomia e indipendenza dei giudici da ogni altro potere (principio della separazione dei poteri), ad oggi la miglior forma di tutela dei diritti del cittadino. Come ebbe ad ammonire il mugnaio di un famoso aneddoto, «Esiste un giudice a Berlino!» ([13]).
- Della sovranità, e dei suoi limiti, nella Costituzione italiana
Avviandoci alla conclusione di questa breve e approssimativa ricostruzione, non si può fare a meno di toccare un argomento di primaria importanza, che riguarda il cuore stesso della questione democratica – che è poi quella da cui siamo partiti.
La questione si può schematicamente riassumere in questi termini: di chi è la sovranità nello Stato costituzionale? E come si conciliano i limiti al potere democratico, quando ad essere sovrano è il popolo? Insomma, è in questione il “passaggio” dallo Stato costituzionale alla democrazia costituzionale ([14]).
A tale proposito, la nostra Costituzione affronta subito la questione fin dalle prime parole: «La sovranità appartieneal popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», recita l’articolo 1, secondo comma.
Con questa formula la Costituzione ci dice (almeno) due cose fondamentali. Innanzi tutto essa esplicita chi sia il soggetto titolare della sovranità: il popolo. Da intendersi, tutto il popolo e non una sua parte, fosse pure maggioritaria. È di fondamentale importanza chiarire questo punto: il “popolo” evocato dalla Costituzione non è il “popolo” (nel senso dei molti) che oggi i populisti contrappongono alle “élites” o all’establishment (i pochi “privilegiati”): la sovranità appartiene all’intera comunità nazionale (non a molti ma a tutti) e questa “appartenenza” non è in alcun modo revocabile o sopprimibile. Dire che la sovranità appartiene a tutti i cittadini vuol dire che tutti i cittadini hanno (cioè: devono avere) la possibilità di partecipare attivamente alla creazione delle leggi che li governano, anche se poi il contenuto di tali leggi viene determinato dalla volontà di una maggioranza ([15]). Maggioranza che dovrà comunque rispettare i limiti imposti dalla Costituzione (a cominciare dal rispetto dei diritti delle minoranze) e perseguire i fini da essa indicati.
Chiarito questo primo punto, il testo costituzionale affronta subito un’altra questione, altrettanto importante: come si esercita questa sovranità di cui il popolo è titolare? La risposta è: nei modi previsti dalla Costituzione. In altre parole è la Costituzione che disciplina l’esercizio di quella sovranità che poche parole prima ha dichiarato appartenere al popolo. Perché “appartenere” ed “esercitare” non sono la stessa cosa, specialmente quando si parla di potere sovrano in quella che oggi è l’unica forma praticabile di democrazia, ossia la democrazia rappresentativa.
Dovendo necessariamente semplificare questioni di enorme portata (e conseguenze), bisogna innanzi tutto sgombrare il campo da una serie di errori teorici e pratici che ci portiamo dietro da tempo, a cominciare dal fatto che con la parola “democrazia” si intenda il “governo del popolo” preso alla lettera ([16]).
- La sovranità ai tempi della democrazia rappresentativa
Nella democrazia rappresentativa, com’è del resto sotto gli occhi di tutti, il potere non viene direttamente esercitato dal popolo bensì – appunto – dai suoi rappresentanti. Addirittura, in Paesi di antica tradizione democratica come il Regno Unito, si afferma comunemente che la sovranità appartenga… al Parlamento di Westminster, e nessuno ha mai pensato che questa risieda nel popolo. Ad esempio, dopo il referendum sulla “Brexit” del 2016, c’è comunque voluto un atto del Parlamento per decretare l’uscita del Regno Unito dalla UE; anche in questa occasione le massime autorità giudiziarie britanniche (la High Court nel 2016 e la Supreme Court nel 2017) hanno ribadito che ad essere vigente è la sovranità non del popolo ma del Parlamento, stabilendo solennemente che, come il Paese era entrato in Europa con un atto del Parlamento, avrebbe dovuto uscirne con atto uguale e contrario ([17]).
Ma in Inghilterra, come si sa, non esiste una Costituzione “rigida” come da noi. In realtà non c’è neppure una Costituzione scritta (almeno nel senso in cui la intendiamo) bensì un insieme di leggi e consuetudini secolari (a cominciare dalla Magna Charta Libertatum del 1215) che, almeno in teoria, potrebbero essere abrogate o modificate con una “semplice” legge del Parlamento. Ma anche abbandonando le sponde delle bianche scogliere di Dover, resta comunque il fatto che l’esercizio della sovranità è affidato alle istituzioni politiche di governo (in senso lato), spettando al popolo il diritto/dovere di esprimere con il proprio voto (sovrano) un giudizio sull’operato dei suoi rappresentanti. Insomma, com’è stato efficacemente detto, la democrazia non è (e non è mai stata) il “governo del popolo”, semmai è il controllo del popolo sul governo ([18]).
Non c’è dunque un vero e proprio “governo del (nel senso: esercitato direttamente dal) popolo”, come l’etimo induce a credere. Ma in realtà l’errore sta forse ancora più a monte. Si è pensato, cioè, che, con la diffusione delle idee democratiche, sul piano teorico prima e sul piano pratico poi, si fosse in presenza di una radicale cesura nella storia delle forme di governo, a causa della quale la distinzione stessa tra governanti e governati dovesse considerarsi scomparsa sul piano teorico e dunque essere eliminata su quello pratico. Con la conseguenza che ogni norma o pratica che si frapponesse rispetto ad una tale petizione di principio venisse automaticamente considerata una “promessa non mantenuta”, o addirittura un “tradimento” della democrazia, finendo col rappresentare quest’ultima nulla di più di un mero simulacro ideologico ([19]).
Ma se invece, tornando con i piedi per terra, affrontiamo la questione nei suoi binari corretti (la democrazia come forma di controllo del popolo sul governo), ecco che allora si comprende come gli istituti dello Stato costituzionale – Costituzioni rigide (cioè non modificabili da una semplice maggioranza parlamentare), Corti costituzionali, giudici, ecc. – non abbiano, in realtà, lo scopo di limitare la sovranità del popolo. Viceversa, si tratta di congegni istituzionali, resi necessari dalle vicende storiche prima richiamate, cui viene affidato il compito di limitare il soggetto che esercita il potere sovrano, cioè il governo (in senso lato di circuito politico che ricomprende Parlamento e Governo ([20])). Anche perché gli errori del popolo (sempre possibili: sovranità non vuol dire infallibilità) sono quasi sempre commessi in buona fede, mentre non altrettanto può dirsi degli “errori” (a volte tramutatisi in veri e propri orrori) perpetrati dai suoi rappresentanti.
Si comprende, allora, la grande saggezza della nostra Carta fondamentale, nella parte in cui si afferma che l’esercizio di quella sovranità di cui il popolo è titolare venga operato «nelle forme e nei limiti» previsti dalla Costituzione. A essere limitata non è la titolarità ma l’esercizio della sovranità, cioè l’esercizio del potere. E in democrazia il potere è e deve essere limitato. Ogni forma di potere, finanche quella che si esercita – come ebbe a dire Abramo Lincoln in un famoso discorso – “dal popolo e per il popolo”.
Tutto questo deve però anche indurci a riflettere che una democrazia dotata di robusti limiti e contrappesi non dovrebbe aver “paura” di un governo che venga messo nelle migliori condizioni istituzionali per poter realmente esercitare quella “porzione” di sovranità che è l’indirizzo politico, in osservanza di un compito che è la Costituzione stessa ad affidargli. In questo senso, chi scrive continua a ritenere, in modo impenitente, che il 4 dicembre 2016 il popolo italiano abbia perduto un’importante occasione per rendere più efficiente l’esercizio del governo senza che fossero minimamente intaccati gli istituti costituzionali di limite e controllo del potere. Ma, come si sa, il popolo sovrano – questa volta chiamato ad esercitare direttamente con il voto referendario la sovranità che gli appartiene – ha deciso diversamente.
- La democrazia costituzionale: una creatura complessa e fragile che spetta a noi difendere
Come si spera di aver dimostrato, anche a costo di aver annoiato il lettore, lo Stato di democrazia costituzionale in cui viviamo è una costruzione molto complessa, stratificata in una molteplicità di concetti (diritti, norme, principi, ecc.) e congegni istituzionali (Parlamento, Corte costituzionale, giudici, ecc.) frutto di elaborazioni plurisecolari; una costruzione che non è sgorgata all’improvviso dalla testa di un dio greco, ma è il prodotto faticoso di secoli di lotte sanguinose e passi falsi, vicende riprovevoli ed esempi luminosi.
Ma, al tempo stesso, la nostra democrazia costituzionale è ben lungi dall’essere un’acquisizione scontata e ormai “data” una volta per tutte. Proprio perché complessa, essa è una costruzione fragile, la cui consistenza riposa fondamentalmente su un elemento portante: la consapevolezza piena che il potere sovrano appartiene al popolo e non ai suoi rappresentanti, i quali semmai lo esercitano nel suo nome.
Ma questo significa che, non appena quel potere venga conferito a qualcuno (chiunque sia, non importa quanto “buono” o popolare possa essere) in modo “pieno” e incondizionato, oltre i limiti della Costituzione, allora ci stiamo ponendo fuori non solo della legalità costituzionale ma della stessa forma di governo democratica. La democrazia è radicalmente incompatibile con ogni forma di potere esercitato in modo “assoluto”, non importa quanto “democratica” sia stata la decisione che ha portato ad una tale attribuzione. Non ci può essere nessuna democrazia nella scelta di… porre fine alla democrazia. Nessuna forma di “eutanasia” può essere ammessa quando si parla della sovranità del popolo.
Come si ricordava all’inizio, è una storia che noi europei abbiamo già visto, purtroppo. C’è da sperare che l’Europa, intesa sia come Europa degli Stati che come Europa dei popoli, non lo abbia già dimenticato. A tale proposito, conviene ricordare qui un’espressione molto efficace usata da due politologi americani in un volume recente sulla crisi delle democrazie nel mondo: «la storia non si ripete parola per parola. Però le parole della storia di oggi fanno rima con quelle del passato» ([21]).
Ecco, saper intravedere queste “rime”, sovente nascoste dietro promesse accattivanti e slogan “popolari”, è la premessa necessaria per evitare che quella creatura fragile e complessa cui diamo il nome di democrazia costituzionale venga, se non abbattuta nella forma, svuotata nella sostanza. Abbiamo tutti il dovere di impedirlo, tenendo alta la guardia della nostra consapevolezza. Solo così possiamo essere davvero degni di quella sovranità che secondo la Costituzione ci “appartiene” e che altri hanno conquistato per noi. Sovente pagando un prezzo altissimo.
([1]) Altre informazioni e materiali utili sulla situazione ungherese si possono trovare qui.
([2]) Il gruppo del Pd al Parlamento europeo ha subito presentato un’interrogazione sul tema: la si può leggere qui.
([3]) Il testo dell’intervento di Stefano Ceccanti è reperibile qui.
([4]) La rapida progressione nei consensi del partito nazista alle elezioni nazionali tedesche è davvero impressionante e degna, ancora oggi, della più attenta riflessione: dal 2,6% dei voti raccolti nel 1928 vi è un primo balzo al 18,3% alle successive elezioni del 1930, per poi giungere nel 1932 ad un sorprendente 37,3%. Nel marzo 1933, dopo l’incendio del Reichstag e in una situazione di legalità democratica alquanto precaria (ma comunque non ancora di stato dittatoriale) il partito guidato da Hitler risconterà il 43,9% dei consensi. Non è questa la sede per affrontare la molteplicità di fattori (storici, sociologici, culturali, ecc.) che hanno reso possibile questa ascesa a dir poco travolgente. Su queste vicende si veda, da ultimo, B.C. Hett, Morte della democrazia. L’ascesa di Hitler e il crollo della Repubblica di Weimar, trad. it., Einaudi, Torino, 2019.
([5]) La storia offre purtroppo numerosi esempi di decisioni assunte dal popolo tragicamente errate, come ricorda, ad esempio, V. Pazé, In nome del popolo. Il problema democratico, Laterza, Roma-Bari, 2011.
([6]) M. Barberis, Stato costituzionale. Per un nuovo costituzionalismo, Mucchi, Modena, 2012
([7]) Trovo questa citazione nel bel saggio di E. Bindi, Piero Calamandrei e le leggi razziali, reperibile qui.
([8]) Su cui si veda, per un recente e sintetico inquadramento storico, M. Fioravanti, Costituzionalismo. La storia, le teorie, i testi, Carocci, Roma, 2018. Per chi volesse approfondire, si suggerisce, dello stesso autore: Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari, 2009. Un classico recentemente ristampato è N. Matteucci, Breve storia del costituzionalismo, con introduz. di C. Galli, Morcelliana, Brescia, 2010 (ed. orig. 1964). Un approccio filosofico-giuridico, con particolare riferimento alle teorie del costituzionalismo contemporaneo, è quello di G. Bongiovanni, Costituzionalismo e teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2005. Fra le tante, altre utili letture sono M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1994; G. Volpe, Il costituzionalismo del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2000; F. Rimoli, L’idea di costituzione. Una storia critica, Carocci, Roma, 2011.
([9]) Chi scrive è ben consapevole che la distinzione tra regole e principi (nonché la stessa definizione di questi ultimi) è tuttora oggetto di acceso dibattito in ambito teorico. Qui si aderisce alla posizione espressa da M. Barberis, Una filosofia del diritto per lo stato costituzionale, Giappichelli, Torino, 2017.
([10]) G. Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, Torino, 2018, cap. VIII, par. 12.
([11]) M. Barberis, Una filosofia del diritto per lo stato costituzionale, cit., spec. pp. 96 ss.
([12]) Da ultimo, Cass. civ., sez. III, sent. 25/07/2000, n. 9738, nella quale si è affermato che la riserva di legge di cui all’art. 16 Cost. comporta che il legislatore ordinario debba stabilire le ipotesi generali in cui è lecito limitare la libertà di circolazione dei cittadini, potendo demandare all’autorità amministrativa di specificare le dette ipotesi con atti normativi secondari. Per questi aspetti si veda P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Giappichelli, Torino, III ed., 2011, pp. 323 ss.
([13]) L’aneddoto è molto noto nelle terre di lingua tedesca e tra i cultori della scienza giuridica. La storia merita di essere raccontata per varie ragioni, non ultimo il finale a sorpresa. È quello che ho provato a fare in altro scritto, di prossima pubblicazione sulla rivista on-line “Giustizia Insieme”.
([14]) Su cui, da ultimo, si veda L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2016
([15]) Sintetizzo nel testo una formula che appartiene ad uno dei più grandi teorici del diritto e della democrazia della prima metà del Novecento: l’austriaco Hans Kelsen (1881-1973). Vale senz’altro riportare per esteso la citazione, tratta da una delle opere più significative: «Il principio di maggioranza non si identifica affatto con la signoria assoluta della maggioranza, con la dittatura della maggioranza sulla minoranza. La maggioranza presuppone per definizione l’esistenza di una minoranza; e il diritto della maggioranza implica quindi il diritto di esistenza della minoranza. Il principio di maggioranza è osservato in una democrazia quando è consentito a tutti i cittadini di partecipare alla creazione dell’ordinamento giuridico, per quanto il suo contenuto sia determinato dalla volontà della maggioranza. Non è democratico, perché contrario al principio della maggioranza, escludere alcuna minoranza dalla creazione dell’ordinamento giuridico, anche se l’esclusione sia decisa da una maggioranza» (H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato, ed. orig. 1945; trad. it., Edizioni di Comunità, Milano, IV ed., 1963, p. 292).
([16]) Seguo anche qui le orme di M. Barberis, Come internet sta uccidendo la democrazia, Chiarelettere, Milano, 2020.
([17]) Questi passaggi sono ricordati in Y. Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, trad. it., il Mulino, Bologna, 2019, p. 163.
([18]) Così M. Barberis, Come internet sta uccidendo la democrazia, cit., p. 11. Tra le pubblicazioni più recenti sulla democrazia, una chiara sintesi storica e teorica è quella di S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino, 2014. Più corposo e approfondito è M.L. Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, Donzelli, Roma, 2015. Dotato di acume e concretezza è S. Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, Milano, 2017.
([19]) Vedi, ad esempio, L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004. Contro la “fissità” ideologicamente antagonista di parte della cultura filosofica italiana (che oggi assume la denominazione di “Italian Theory”), e le sue responsabilità nell’aver contribuito anch’essa ad aprire la strada a (talune, perlomeno) pretese di superamento populista delle forme della democrazia rappresentativa (considerata appunto “tradita” e rimasta “irrealizzata” a causa di quelle stesse forme), in base ad un vagheggiato quanto velleitario “altro mondo è possibile”, si veda il recente P.P. Portinaro, Le mani su Machiavelli. Una critica dell’«Italian Theory», Donzelli, Roma, 2018.
([20]) Per chi abbia curiosità di approfondire (anche sul piano dell’evoluzione storica) le regole con cui in Italia il potere è distribuito fra i diversi organi costituzionali titolari della cosiddetta “funzione di indirizzo politico”, si suggerisce M. Perini, Le regole del potere. Primato del Parlamento o del Governo?, Giappichelli, Torino, 2009.
([21]) S. Levitsky e D. Ziblatt, Come muoiono le democrazie, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 2019, p. XXX.
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