Siamo in tanti a pensarla così, credetemi. Quanto tanti? Almeno dieci li conosco io. Gli altri saranno un milione. Parafrasando un’antica battuta! Ma battute a parte, sono tante le persone che hanno queste quattro certezze. Tre negative ed una positiva. Prima quelle negative. Considerano la destra italiana la peggiore di tutta l’Europa. Illiberale, populista e sovranista. La sinistra la più antica di tutta l’Europa. Statalista, burocratica e conservatrice. E il grillismo uno dei peggiori mali del paese. Statalista, assistenzialista e populista. Quella positiva è che ritengono l’Italia il paese dove la ventata liberale e antistatalista che, anche con alcune criticità, ha spazzato il mondo negli ultimi venti anni ha lasciato i danni, come in tutto il mondo, ma non ha fatto sviluppare alcune delle cose positive che questa, nonostante tutto, portava con sé.
E cioè un approccio più legato all’azione dei singoli e delle comunità e meno dello Stato, una visione più liberale dell’economia e della società legata al merito e all’impegno delle persone e non solo al diritto all’eguaglianza, un atteggiamento più attento a lasciare maggiore libertà a quelli in grado e con la voglia di fare piuttosto che a pensare sempre e solo ad aspettare quelli che si attardano indietro. Intendiamoci, con tutto il rispetto del principio che porta ogni liberale a voler rafforzare le “condizioni di eguaglianza dei punti di partenza”, da raggiungere in primis con una scuola e una sanità efficiente e per tutti indistintamente, ma anche con l’accettazione che il “gioco della vita” poi genera di per sé, per fortuna, per merito, per impegno e per casualità, delle differenze, accettabili ed ineliminabili, nelle “condizioni di diseguaglianza dei punti di arrivo”.
Queste quattro certezze sono condivise da tante persone, dicevamo. Ma non sviluppano nel sistema politico e culturale italiano un qualcosa di attivo. E’ una sensazione vissuta spesso inconsciamente da tanti ma che non genera nessun atteggiamento attivo per farla emergere come una “posizione politica”. Direbbe il filosofo che è una “condizione in sé” ma non è ancora una “condizione per sé”. Cioè manca ancora quella coscienza piena e quella spinta soggettiva per far sì che si generi da parte di una agente collettivo un’azione politica.
Eppure alcuni segnali ci sono. Ci sono oramai tanti partiti, movimenti e gruppi che condividono in gran parte, anche se non tutte con la stessa modalità, le quattro certezze prima elencate. Si pensi al nuovo partito di Italia viva, ad Azione di Calenda, a più Europa della Bonino, a Voce Libera della Carfagna, a Energie per l’Italia di Parisi e così via. Ma ognuno di questi gruppi, che valgono pochi punti percentuali ognuno ma che messi assieme potrebbero agevolmente arrivare a doppia cifra per poi giocare un ruolo attivo in un sistema elettorale di tipo proporzionale, vive come espressione di un grande, medio o piccolo leader rendendosi così impossibilitato, direi quasi per natura, a pensare di raccordarsi per fusione, federazione o altro tipo di aggregazione agli altri.
E quindi la condizione in sé viene bloccata nel suo “essere nella società” senza mai riuscire ad assurgere a “posizione politica” nello scenario prima sociale e poi istituzionale del paese.
E allora che fare? Sempre parafrasando un antico interrogativo. Se manca la capacità dei soggetti leader di creare questo raggruppamento per dare “sfogo e riferimento” alle esigenze di una parte del paese che non ne può più di populismo, statalismo, assistenzialismo, burocratismo e così a seguire occorre che questo pezzo di società, la più cosciente e attiva, cominci a “spingere dal basso” per costringere i leader a uscire dal loro comodo e confortante solipsismo.
Un modo per avviare un tale processo potrebbe essere quello di “mescolare” le militanze di questi gruppi oggi esistenti per farle diventare sempre più connesse e sovrapponibili. Per quanto riguarda il partito di Azione è prevista nello Statuto la possibilità di doppia militanza. Tanto che oggi nel gruppo dirigente e promotore di Azione ci sono molti di più Europa. Ecco questo modello potrebbe valere, e funzionare, anche con altri partiti. Perché non prendere la tessera di Azione e Italia viva? Perché non stare nel gruppo della Carfagna e in Italia viva? Perché non stare in Azione e nel gruppo di Parisi? E così via “mescolando”. Mescolare mescolare fino a che i gruppi non saranno connessi, integrabili e i militanti “pontieri” potranno chiedere con forza ai propri leader di dare una organizzazione collettiva al movimento. Cioè una lenta e ragionata fusione dal basso piuttosto che l’attesa messianica, e a volte perdente, di una fusione dall’alto. Ci si può provare?
Per quanto mi riguarda io continuerò a guardare con interesse alla relazione stretta fra Azione e Italia viva. So bene che Calenda e Renzi sono difficilmente avvicinabili. Ma le proposte di Renzi e Calenda mi sembrano ottime per il paese. Questo mi basta per impegnarmi in tale disegno. So anche, e li rispetto, che ci sono molti militanti che sentono maggiormente l’identità di gruppo e la coerenza totale dell’approccio dato dal “proprio capo”. Niente di male. Nei gruppi ci sono sempre i più interni e i più esterni. L’importante è non scomunicare chi cerca di stendere ponti e chi cerca di uscire per tessere relazioni con i “popoli vicini”. La vera sfida è far crescere nel paese una nuova cultura liberalsocialista, che non ha mai avuto dignità politica né nella prima, né nella seconda né nella terza repubblica, e portare un po’ di innovazione nella gestione della policy a tutti i livelli istituzionali. In questa sfida, difficile per l’Italia, molti militanti di questa area si accorgeranno che senza un accordo e una alleanza con i “popoli vicini” che parlano la stessa lingua sarà difficile se non impossibile tentare di diventare egemoni in una terra dove i popoli lontani sono tanti, tanto numerosi, tanto diversi e per nulla disponibili a cedere le proprie armi.
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