La crisi del Movimento Cinquestelle pare ormai avere raggiunto il punto di non ritorno; e le dimissioni del suo leader nazionale, Luigi Di Maio, lo certificano ed annunciano l’imminente collasso definitivo.
Perché, se poteva avere una sua ragione d’essere ai tempi in cui stava all’opposizione e denunciava i privilegi della Casta politica, quando poi è passato ad assumere responsabilità di governo, ha dimostrato che non bastano gli slogan e i “vaffa” urlati nelle piazze per far ripartire la crescita e creare nuovi posti di lavoro.
Il reddito di cittadinaza non solo non ha sconfitto la povertà, ma neppure è servito a rivitalizzare il mercato del lavoro ( si può sapere che fine hanno fatto i “navigator”?), e in molti casi – lo si è visto – ha distribuito soldi a spacciatori e proprietari di macchine di lusso.
L’altro cavallo di battaglia dei Cinquestelle, la giustizia, è diventato giustizialismo, con la legge appena entrata in vigore che ha eliminato la prescrizione dopo il primo grado di giudizio; destinando così le persone a subire processi praticamente infiniti, secondo una logica della giustizia staliniana anziché degna della patria di Cesare Beccaria.
Ma non è stata solo la politica nazionale a dimostrare la natura autoritaria del populismo grillino e l’incapacità dei suoi ministri. Per la verità, la crisi è più antica e la si era già vista nella pessima amministrazione della Capitale quando era diventata sindaca Virginia Raggi.
Qui mi sembra inutile ribadire quello che abbiamo visto tutti in televisione negli ultimi anni, e cioè i rifiuti abbandonati sulle strade di Roma e lasciati marcire per giorni prima di essere raccolti. I Cinquestelle, lo sappiamo, sono contrari alla costruzione di altri termovalorizzatori; e quindi preferiscono che tonnellate di rifiuti viaggino lungo le nostre autostrade per andare ad essere smaltiti (pagando un mucchio di quattrini) nelle città del nord, che dello smaltimento dei rifiuti hanno fatto un’industria di alto livello tecnologico e pienamente in regola sul piano ambientale.
La demagogia (e la stupidità) dell’amministrazione della sindaca Raggi traspare anche dalle regole che sta imponendo ai turisti, nell’errato tentativo di preservare i monumenti romani.
Sulla lunga e meravigliosa scalinata di Trinità dei Monti vige ormai il divieto di sedersi. Ma perché? Per evitare che i deretani dei turisti consumino i marmi bianchi dei gradini? Impedire ai turisti di sedersi per qualche minuto, riposarsi e farsi fotografare su quello sfondo unico al mondo, significa davvero combattere il degrado cittadino?
I monumenti devono essere vissuti, oltre che visti. Certamente vanno tutelati e preservati; e quindi va impedita qualsiasi pratica che possa danneggiarli, come scriverci sopra il proprio nome o magari farci un pic-nic in comitiva. Ma sedere sulla scalinata per un quarto d’ora, che male le può fare?
Non contenta di aver emesso quest’assurda ordinanza, la sindaca ha già annunciato di voler impedire ai turisti di sedersi anche sul bordo della fontana di Trevi, altro capolavoro del tardo barocco romano, diventato un “cult” mondiale dopo la scena felliniana di Anita Ekberg che invita Marcello Mastroianni a raggiungerla nell’acqua.
Secondo la Raggi, bisognerebbe piazzare una barriera metallica attorno alla fontana per tenere distanti i turisti, come si fa con i piccioni sui balconi. Ma i turisti, per quanto invadenti, non defecano attorno alla fontana; e se qualcuno osasse farlo, verrebbe immediatamente sanzionato dai vigili urbani e probabilmente malmenato dai presenti.
Il vero degrado di Roma è attorno al Colosseo, pullulante di venditori africani non autorizzati (e talvolta fastidiosi); per non parlare della Stazione Termini che, dopo il tramonto, diventa luogo di spaccio e illegalità. E’ lì che un sindaco o una sindaca con gli attributi dovrebbe farsi valere e dichiarare la tolleranza zero.
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