di Matteo Renzi*
La politica deve scaldare, ha bisogno di leader autentici e coraggiosi in grado di rischiare, non di grigi funzionari che costruiscono una carriera salendo e scendendo dal carro dell’opportunismo.
La politica è passione, è sale, è vita. E non può che essere radicale.
Intendiamoci: questa non è una radicalità di contenuti. Non vincerà mai la linea dei Mélenchon, di Corbyn o di Sanders.
Le loro scelte non portano la sinistra alla vittoria, ma all’isolamento. Tutto il mondo democratico è attraversato da una potente spaccatura interna tra quelli che possiamo definire leader riformisti e quelli che si ritengono leader massimalisti, per riprendere una divisione ormai secolare. Gli Stati Uniti d’America salutano oggi la nascita di una nuova generazione di donne capaci di entusiasmare e mobilitare la loro base come non avveniva da mesi. Ma tutti sappiamo che se c’è una chance di vittoria contro Trump alle presidenziali 2020, questa viene da una prospettiva riformista, non da posizioni appassionanti ma più estremiste.
Anche se la visibilità mediatica sembra favorire le identità radicali, in realtà le elezioni le vincono i politici con una posizione centrista. Non si vince sfondando il muro della sinistra, si vince al centro.
Questa è la lezione dei Kennedy, dei Clinton e degli Obama.
Quello che intendo sostenere è che bisogna essere radicali nei valori, ma capaci di dare risposte e soluzioni convincendo l’elettorato al centro dello schieramento politico, interessato a un’offerta riformista.
Noi abbiamo occupato quello spazio alle europee del 2014 e lo abbiamo perso nel 2018 rincorrendo e vagheggiando una coalizione a sinistra che non aveva alcuna possibilità di successo.
Cosa vuol dire essere riformisti e non massimalisti? Per esempio, in Italia, essere riformisti
significa scegliere la strada della riduzione fiscale, in particolar modo per i salari del ceto medio, non certo vagheggiare un’improbabile quanto improponibile patrimoniale. Essere riformisti significa schierarsi a favore del garantismo, significa rifiutare il giustizialismo sempre, in ogni occasione, non a corrente alternata sulla base del cognome dell’indagato di turno.
Essere riformisti significa scegliere la strada della flessibilità economica rispetto all’austerity senza scaricare il peso del debito sulle giovani generazioni.
Essere riformisti significa investire sulla cultura senza il pregiudizio contro il privato che ha condotto alla gestione statalista dello straordinario patrimonio del nostro paese; nessuno vuole mercificare la cultura, ma rifiutare una gestione più accorta del patrimonio pubblico italiano è autolesionista e masochista, oltre che sbagliato. Essere riformisti significa fare della sostenibilità la parola d’ordine della crescita economica dei prossimi anni, ma senza cedere alla cultura del «Non nel mio cortile» o, peggio ancora, alla retorica della decrescita felice, perché è felice sempre e solo per chi i soldi li ha già. I primi a essere colpiti dalla decrescita felice sono i più poveri e sostenere che ci attende un orizzonte di questo tipo vuol dire volere il male di chi sta peggio.
Il riformismo è una sfida. Ma il riformismo deve avere un’anima. Suscitare emozioni, coltivare desideri, esprimere poesia. È una battaglia che bisogna ingaggiare a viso aperto contro gli avversari. È l’avventura della speranza. È un viaggio segnato da tante scelte. È un sogno, forse. È un rischio senz’altro. Ma, citando un poeta italiano contemporaneo, Franco Arminio, «alla fine dei tuoi giorni resteranno le tue imprudenze, più che gli indugi resteranno i canti».
*dal libro «Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani», edito da Marsilio (pp. 240, euro 16). Estratto del capitolo «Un’anima per il riformismo».
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