Il 2019 è stato un anno per molti aspetti negativo per l’economia italiana, con un impulso della politica economica nullo in termini macroeconomici e negativo in termini microeconomici con specifico riferimento alla politica industriale, di fatto invisa ai policy-makers dei due governi che si sono succeduti. Ed è difficile attendersi un cambio di rotta della politica economica, sempre condotta dagli stessi o quasi protagonisti nei ministeri che operano nelle aree dello sviluppo economico, dell’innovazione industriale e dell’organizzazione della pubblica amministrazione. Per cui non è difficile preconizzare un analogo andamento dell’economia italiana per il prossimo anno. E affermiamo questo senza considerare gli ampi margini di incertezza che provengono dagli scenari internazionali ma rimanendo nella nostra prospettiva.
Ci sorregge in questa visione l’epitaffio lasciateci da Federico Fubini sul Corriere della Sera con l’editoriale di fine anno “Perché l’Italia è ferma”. Il paese ha conseguito una crescita cumulata dal punto più basso in termini di PIL dalla crisi 2008-2014 inferiore ai paesi dell’Eurozona, al Giappone e agli USA. Il PIL è da noi aumentato del 4%, meno della metà della Grecia, Finlandia e Portogallo, paesi che hanno conosciuto una austerità ben maggiore della nostra. Il recupero in Spagna e Giappone è stato di due volte e mezzo l’Italia, in Francia di tre volte, in Germania oltre quattro volte, in Gran Bretagna di più del quintuplo e in Svezia di più di sei volte. Dopo la Grande recessione, mentre gli altri paesi industrializzati, fossero nell’euro o con moneta nazionale, hanno ripreso a camminare o correre, noi siamo rimasti bloccati.
Tutto ciò si riflette nelle varie classifiche stilate dagli organismi internazionali a fine anno. Nella classifica sulla facilità di fare imprese della Banca mondiale siamo in calo da sei anni (al 58esimo posto), nei dati dell’Ocse sulle competenze degli studenti siamo scesi al 34esimo posto, mentre nel 2019 gli investimenti totali al netto dell’inflazione sono sotto i livelli del 2017 e 2018. Persino l’export fuori dall’Europa quest’anno è sceso, in termini vistosi verso Cina e Stati Uniti.
La politica non affronta questi problemi, non propone strategie di soluzione, anzi recupera forme di intervento pubblico da anni 70 che, fallite allora, dovrebbero avere successo oggi, in un mondo del tutto stravolto da cambiamenti epocali. Per esempio, Fubini ci ricorda come ci stiamo autoconvincendo che la risposta per le imprese improduttive (Ilva, Alitalia, gestione autostrade e così via) “sia semplicemente più mano pubblica, senza neanche soffermarci a considerare che lo Stato è il settore meno produttivo del Paese”. Gli esempi di guasti nel passato non mancano.
Eppure il sistema economico privato, da solo, continua a dare segni di vitalità come sottolinea Marco Fortis in un altro importante editoriale su Il Foglio di fine anno. “Economia reale, iniziativa privata, operosità, genio italico”, dice Fortis, producono ancora risultati positivi e qua e là emergono eccellenze che ci pongono all’avanguardia in settori manifatturieri che sostengono un volume di export ancora invidiabile. L’Italia nella manifattura rivolta all’export ha fatto meglio dal 2015 al 2017 in termini di produttività del lavoro per occupato delle maggiori economie dell’UE. Ma questi settori coprono una quota limitata del valore aggiunto complessivo e di occupazione e sono isole in un mare di inefficienze e clientelismi che riguardano il terziario e la pubblica amministrazione.
Avessimo un Presidente del consiglio e un Ministro dello sviluppo economico in grado di proporre interventi di riforma finalizzati a valorizzare queste elementi positivi e estendere le aree di successo, se nel governo tutto, come nell’opposizione, vi fosse una seria consapevolezza di questo declino strisciante del paese, potremmo guardare all’anno che verrà con minore scetticismo. Purtroppo, vorremmo sbagliare, ma non ci pare sia questo il caso, specie in un anno elettorale.
E poi c’è il versante della finanza pubblica, presidiata da un ministero, il MEF, all’altezza, ma isolato. Nel 2020 ci sarà la tanto agognata riforma dei parametri del Fiscal Compact, con una nuova regola di disciplina fiscale, basata sul controllo della dinamica della spesa pubblica, che libera sistematicamente una quota annuale di investimenti pubblici. Ciò sarà il frutto di un programma triennale concordato con la Commissione europea in cui progetti di grande rilievo saranno consentiti al di fuori dei limiti di espansione della spesa. Tuttavia, nello stesso periodo l’Italia dovrà garantire un profilo di adeguata riduzione del rapporto debito su PIL da conseguire soprattutto con riduzioni della spesa pubblica corrente. Saranno in grado i nostri policy-makers, fautori dello stato produttore, dell’assistenzialismo tipo Reddito di cittadinanza e Quota 100, di impegnarsi in tal senso? Abbiamo seri motivi di dubitarne.
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