Specie sui social, bisognerebbe seguire rigorosamente una regola: non intervenire a caldo, mentre le cose che si vogliono giudicare stanno accadendo. Si rischia di semplificare e, alla fine, di manifestare solo la propria ideologia.
Per quanto posso, almeno da un po’ di tempo, cerco faticosamente di attenermi a questo principio, non sempre riuscendoci. Ma stavolta lo faccio con una certa cognizione di causa. Sia perché trovo insopportabile l’atteggiamento di molti verso Greta Thunberg e verso le ragazze e i ragazzi che in queste ore stanno manifestando a milioni in tutto il mondo, sia perché – per quanto si creda – quanto sta accadendo non è affatto “a caldo”, compreso il dibattito politico e culturale che sembra infiammare la polemica solo oggi.
La questione del rispetto degli equilibri ambientali e di come tenere insieme sviluppo e natura è– se non vogliamo risalire a due secoli (ma, a ben pensarci, anche prima) − nota almeno dalla fine degli anni Settanta, quando gli studiosi del così detto Club di Roma, in una serie di Rapporti, avvertirono che, se le società industriali avanzate avessero continuato a sprecare risorse non rigenerabili al ritmo tenuto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, nel giro di cinquant’anni la terra sarebbe stata al collasso.
In questo campo, le previsioni sono sempre azzardate. I cinquant’anni scadono oggi e – se è vero che gli scienziati di tutto il mondo, con rare eccezioni – avvertono ora che quel collasso sta o è iniziato, è altrettanto vero che tanti di quegli avvertimenti erano più profezie che ipotesi probabilisticamente controllabili, che spesso, a parlare, non erano e non sono scienziati ma “futuristi” e che la gestione economica e politica del problema è ancora possibile.
A quei Report seguirono poi altre analisi e altri libri. Quelli ad esempio di Ivan Illich, per il quale “il piccolo era bello e ecologicamente (in senso lato) sostenibile) o, sul lato opposto – agli inizi degli anni Ottanta – i teorici della società dell’informazione, secondo i quali il potere sarebbe stato nelle mani di chi avesse avuto accesso a quei bit di nozioni (dunque, anche in quello dei parasubordinati dei call center), il telelavoro sarebbe stato la panacea per il decongestionamento del traffico e per la qualità dell’aria e finalmente si sarebbe compiuto il sogno positivista dei Auguste Comte: dal governo politico all’amministrazione razionale degli esseri umani. Per Andrè Gorz la completa robotizzazione del Regno della Necessità: il lavoro, avrebbe pienamente dispiegato il Regno della Libertà e dell’ozio (creativo?) e si sarebbe spianata finalmente la strada alla “decrescita felice” (mi son sempre chiesto perché Latouche non abbia mai parlato di “crescita felice”, problematizzando, come fece invece Pasolini, non la prima ma la seconda parola: forse, lui e Gorz non hanno mai letto attentamente le note del Terzo Libro de Il Capitale di Marx). In maniera simmetrica, “fulminati” sulla via dell’Intelligenza Artificiale – Jeremy Rifkin ad esempio, anni Novanta e Duemila – rispondevano ingenuamente a quei naif che la telematica di quarta generazione avrebbe fatto al contempo del consumatore un produttore (il prosumer) e del carnivoro un vegetariano, con la clonazione di saporiti pezzi di carna ma senz’anima.
Oggi, il tema si ripropone, e con le stesse radicalizzazioni. E già questo mostra che l’attenzione all’ecosistema non è affatto una moda passeggera gonfiata dai media che riescono a fare di una ragazza di sedici anni – per di più, sottolineano i suoi detrattori alla Orban, affetta da disturbo dello spettro autistico e senza gran voglia di studiare − una star ed un possibile premio Nobel. È piuttosto una delle grandi problematiche che – sviluppatasi nel corso del tempo come un fiume carsico – contraddistingueranno culturalmente, economicamente e tecnologicamente, l’epoca futura che per (nostra) fortuna gli occhi della nostra generazione non potranno vedere.
In questa nostra fisiologica impossibilità sta, secondo me, una delle ragioni per la quale − agli occhi di tanti adulti, di diverso credo politico – Greta, e i ragazzi che vi si ispirano, sono dei “gretini ma con la ‘c’ iniziale”, degli scansafatiche, degli ipocriti che predicano bene ma razzolano male perché usano smartphone e lasciano lattine e bottiglie di birra per terra. Ogni generazione, per definizione, è figlia del proprio tempo, e quelle di coloro che oggi scherniscono con tanta prosopopea sono nate e cresciute (e destinate a morire) in un tempo in cui i concetti di “la terra come organismo vivente”, e di “diritti del creato: esseri umani e esseri viventi in genere, animali o vegetali che siano”, semplicemente, non rientravano (se non, appunto, come parole alla moda, fugaci come i pantaloni a zampa d’elefante o i capelli lunghi) nel loro orizzonte storicamente determinato di significato. Condivido solo in parte la retorica attuale della colpa e della responsabilità delle generazioni passate. Come puoi essere alla fine responsabile di qualcosa di cui sei non tanto inconsapevole quanto di fatto privo del senso ad essa corrispondente? Una tale accusa, quando fatta agli altri dagli ecologisti, mi sembra ingenerosa, quando rivolta a sé stessi dai “produttori” mi pare autoassolutoria.
A ben vedere, la generazione “presentificata”, senza futuro, non è quella dei ragazzi di oggi ma quella di noi ragazzi di ieri. Per noi, il benessere industrialista – alla luce della povertà passata – era a tal punto dato per scontato che abbiamo potuto concentrarci con maggior tranquillità sul presente, superando quell’etica del “differimento dei piaceri” tipica dei loro genitori. Per loro, invece – che siamo stati noi a socializzare proprio a quel valore del godimento del “qui e ora” – il presente appare svuotato, si rivela insomma una specie di simulacro il cui riempimento – abbiamo insegnato loro – è loro unica responsabilità personale, al premio della vertigine del successo individuale ma anche e soprattutto al costo del dramma del fallimento soggettivo. È un peso enorme, da cui ci si solleva solo o chiudendosi nell’afasia adolescenziale o nei mille idioletti giovanili parlati nelle loro tribù (e, agli orecchi di noi maturi, spesso incomprensibili), oppure tornando, appunto, a sognare un futuro, ad urlare questo bisogno profondo e a pretenderlo se necessario anche nelle piazze. Un futuro – ci dicono severamente – in cui a noi grandi non sarà concesso di entrare. Ma che solo noi grandi – in quanto titolari del potere di decidere ora − possiamo consentire loro di costruire e di rendere possibile, e di farlo − al di là di utopie e ucronie − in nuovi modi di fare economia, di lavorare, di relazionarsi, di far politica.
È un po’ come se quelle ragazze e quei ragazzi ci restituissero, in cambio, quel senso di avvenire che abbiamo perso di vista. E ci dessero così l’opportunità di completare la nostra vita.
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