Don’t cry for me Argentina…è un brano celebre per chi, come me, appartiene alla generazione cresciuta nel mito dei musical composti dal genio di Andrew Llyod Webber.
Ma il tema argentino, ancora una volta, torna di grande attualità in questi giorni, anche se assume sfumature preoccupanti: Il paese del tango è “casquè” (mi si perdonerà la freddura) una altra volta.
È stato annunciato l’ennesimo “default selettivo”, che in parole povere, significa che buona parte del debito di stato non verrà ripagato. Con conseguenze insostenibili: si esce la mattina con il prezzo del pane a 100 pesos e si torna la sera che è magari raddoppiato. Nel 2012 per comprare un dollaro ci volevano 8 pesos, ora 56.
Noi italiani abbiamo ancora ben presente il crack argentino del 2001: siamo stati uno dei popoli stranieri che maggiormente aveva investito in suddetti titoli, allettati dagli alti rendimenti promessi. Perdendo (quasi) tutto.
La situazione argentina si accavalla a quella già molto complessa del Venezuela, dove la crisi è tale che i titoli finanziari non sono neppure più scambiati: insomma, in Sud America fa davvero caldo.
Va detto che i titoli argentini «ristrutturati» dopo il 2001 non vengono toccati da questa nuova insolvenza e poi, essendo sotto elezioni (27 ottobre), ci sono le solite grandi promesse per una veloce soluzione (a detta dei candidati premier). Ma la storia insegna che, tradire le promesse elettorali non è cosa poi così difficile e trovarsi poi in una situazione irreversibile non è impossibile, anzi…
Soprattutto per chi è abituato a vivere costantemente nel pericolo e nella promessa elettorale (ogni riferimento è puramente casuale). Poi, tornando al caso argentino, servirà ben più di una “mano de Dios” per vincere anche questa partita….
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