Quanto successo in questi ultimi mesi in Italia ha dell’incredibile. Nel giro di nemmeno trenta giorni, e in pieno Agosto, si è passati − sotto lo stesso Presidente del Consiglio – da un Governo di Destra sovranista ad uno di Centro-Sinistra europeista. Il partito che tutti i sondaggi – ma anche tutte le recenti elezioni: amministrative, nazionali e europee – danno (ora, davano) dal 35% in su è oggi all’opposizione, e per iniziativa ancora per molti aspetti incomprensibile del suo stesso leader. La diffidenza maturata dall’Unione Europea nel corso dell’ultimo anno si è tramutata, velocemente, in rinnovata fiducia, addirittura con l’ex Presidente Gentiloni, del PD, Commissario Europeo italiano.
Questo completo scompaginamento – che davvero nessuno si aspettava – ha riacceso gli animi del dibattito politico. Dagli sconfitti si grida al colpo di Stato o alla congiura di palazzo, si chiama la gente in piazza, si rivendicano le elezioni e si urla al tradimento dei principi democratici. Fra i vincitori, molti – più o meno volentieri – ribadiscono la legalità costituzionale del cambiamento ma molti altri, spiazzati, si dicono increduli per come la coerenza politica sia stata calpestata e scettici sulla tenuta di questo nuovo esperimento. Altri ancora – traversali a questi ultimi due fronti – si rifanno a questioni di sostanza e programmatiche, ora fiduciosi nell’adozioni di misure davvero riformiste, ora timorosi di una deriva del riformismo verso posizioni populiste e meramente redistributive.
Credo che tutte queste posizioni abbiano – ciascuna – un contenuto di verità. La scelta del Presidente della Repubblica di verificare la possibilità di un’altra maggioranza prima di sciogliere le Camere è costituzionalmente impeccabile. La nostra Carta Fondamentale – non a caso – fissa il limite temporale di una legislatura e non lo fa affatto coincidere con uno di governo. Rimane che quanto accaduto sancisce uno scostamento di non poco conto fra l’attuale sentimento politico dell’elettorato e quello espresso dalla nuova maggioranza parlamentare. Questa ha certamente avuto – nella sua preparazione, per quanto repentina – il benestare delle nuove istituzioni europee e la messa in disparte della Lega − e della sua classe dirigente: Salvini e il team dei suoi economisti – è certamente un esautoramento, al pari di quello che si consumò alla fine del 2011, con le dimissioni del Governo Berlusconi. E tuttavia, come avrebbe potuto essere diversamente, dato il peso politico dell’Italia nell’architettura europea (della quale il nostro Paese è uno dei fondatori) e date le possibili ricadute che un default italiano avrebbe sull’economia e sulla vita quotidiana degli altri ventotto nazioni dell’Unione (includo anche il Regno Unito, quanto meno fino al 31 Ottobre, ma sono ragionevolmente sicuro anche oltre, viste le altrettanto incredibili vicende che stanno sconquassando la Gran Bretagna). Infine, è indubbiamente vero: la continuità e la coerenza delle strategie politiche dei partiti – segno distintivo di trasparenza e di affidabilità quali indispensabili condizioni di scelta ragionata dell’elettorato – sembrano oggi sempre più un valore dichiarato ma non perseguito, un valore “economico” anziché uno di tipo “normativo”. Con questo, ogni idealità si declina in maniera diversa al mutare delle circostanze e delle finalità alla luce delle quali si legittima. Diversamente, essa diventerebbe idealismo e, più in là, ideologismo, e anche questo atteggiamento chiuso e autoreferenziale la Storia insegna non aver alcun altro spessore che quello impersonale del denaro, adattabile e utile a qualunque scopo.
Sulle ragioni immediate di quanto è successo ci si può sbizzarrire. Io credo che si sia verificato per la congiuntura improbabile (in parte anche “fortuita”: non si sottovaluti mai il peso della casualità nelle vicende umane, sociali e politiche) di una serie di fattori: la crisi di consenso del M5S, e la paura dei suoi parlamentari di veder svanire la vincita del loro “terno al lotto” come eletti (questo vale tuttavia per tutti, non solo per i pentastellati); lo sgomento del Governo giallo-verde di dover a brevissimo stendere una Legge di Bilancio 2020 di 50-60 miliardi per impedire l’aumento dell’Iva e per corrispondere agli impegni controvoglia presi con l’Unione Europea in cambio della sua rinuncia, mesi fa, ad attuare per l’Italia una procedura di infrazione (la prima nella storia comunitaria) per eccesso di debito pubblico; l’incalzare, per Matteo Salvini, di inchieste giudiziarie per la ricerca di finanziamenti illeciti russi e per la sua palese contravvenzione del Diritto Internazionale in tema di soccorso in mare e di salvaguardia dei diritti umani, Diritto sovraordinato e costituzionalmente sancito rispetto quello ordinario statuale; da qui, la sconclusionata prova di forza e fuga in avanti del leader leghista sulla base della sua convinzione di onnipotenza che avrebbe potuto avere mano libera (i “pieni poteri”) una volta vinto facilmente le elezioni politiche anticipate. Si aggiungano due ultimi tasselli: la reazione di Giuseppe Conte che – stanco di essere di fatto (e di parola) oltraggiato dal suo Ministro degli Interni – ha ritrovato lo spessore (e l’ambizione) dell’Ordinario di Diritto Privato di fronte alla saccenteria, alla protervia e all’analfabetismo istituzionale di un politicante di professione come Salvini (e, come si vedrà, Di Maio); e quella inaspettata di quell’autentico “animale politico” che è Matteo Renzi. Vilfredo Pareto diceva che le élite cambiano sulla base della lotta fra volpi(astute e corrotte, detentrici di un potere che non vogliono perdere) e leoni(forti e passionali, provenienti dalle classi sociali escluse dalle stanze dei bottoni). Ebbene, Renzi è stato al governo (qui inteso in senso lato) per un tempo abbastanza lungo per apprendere la mentalità della volpe, e tuttavia non sufficiente per perdere il vigore e il coraggio del rischio tipico del leone. Il suo è stato un vero e proprio capolavoro di tattica politica: è rientrato pienamente in gioco, controlla per ora la maggioranza dei parlamentari del PD (dispone quindi potenzialmente della tenuta del nuovo Governo), ha conquistato tempo per la gestazione del suo nuovo partito (sono convinto: per una scissione concordata con Zingaretti, una scissione che tuttavia la nascente maggioranza giallo-rossa procrastinerà), ha non di meno puntellato la leadership dell’attuale Segretario del Partito Democratico, il quale esce a testa alta dalla tempesta delle ultime settimane e penso – data questa sua improvvisa convenienza – si sia convinto a contravvenire a quell’assicurazione credo, all’inizio della vicenda data, a Salvini circa l’andata al voto anticipato in caso di crisi del Governo.
Se questa è stata la costellazione di eventi che, nell’immediato, contribuisce a far capire il dipanarsi recente delle cose, io penso però che essa sia una spiegazione di superficie. Così come le increspature delle onde del mare sono il prodotto di correnti più profonde e meno visibili, altrettanto quanto l’Italia ha vissuto in maniera tanto conclamata nell’ultimo anno – in modo d’altronde sempre più evidente nel quinquennio alle nostre spalle – è il segno di un inceppamento strutturale dei meccanismi e delle procedure tradizionali della democrazia (nelle sue dimensioni rappresentative, decisionali e giudiziarie), che riguarda non solo la nostra realtà ma – basta dare uno sguardo a quanto sta avvenendo in democrazie mature come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, più ad est (benché regimi liberali di più recente costituzione) in Ungheria o in Polonia – l’intera area della cultura e della civiltà occidentale. Ciò che dietro il rocambolesco susseguirsi di eventi apparentemente contradditori comincia ad emergere e a imporsi alla nostra attenzione è una serie di domande il cui potere di renderci stupefatti (e di farci perciò in genere rifuggire dal tentativo di provare ad iniziare a dar loro risposta) dipende dal porci di fronte al problema di conciliare aspetti differenti e simmetricamente opposti, e dunque non solo di rimettere in discussione le nostre abitudinarie concezioni di convivenza democratica ma anche di prendere atto di quanto quelle prese di posizione estreme, ricordate all’inizio, siano da relativizzare e, perciò, da ridimensionare. Provo qui di seguito a ragionare intorno ad alcuni di quei quesiti, che introduco sotto forma di titoletti tematici e che discuterò brevemente circa la natura paradossale della questione che sottende ciascuno di essi.
- La complessità dei cambiamenti: ciascuno di noi – come individuo, famiglia, gruppo, città, regione, nazione ecc. – si muove, matura la sua visione delle cose, si risolve (a partire da essa) a stabilire le sue finalità e i mezzi per perseguirle, all’interno di reti di interdipendenze (possiamo dire tranquillamente “di potere”) che – nel corso del tempo e ad una velocità sempre più elevata e impressionante – vanno ampliandosi, sovrapponendosi, connettendosi e intersecandosi, a formare un’architettura stratificata su più livelli. In questa ragnatela quanto mai densa, ciascuno sa, più o meno consapevolmente, che quanto decide di fare tenderà inevitabilmente ad avere ripercussioni tanto più estese (e difficilmente prevedibili e controllabili) quando più la trama di quei legami si diparte da lui. Ad esempio, assumo, per giusto principio, un atteggiamento (anche solo all’apparenza) non compromissorio e conflittuale o di dissenso sul lavoro: che ne sarà – nell’epoca della flessibilità − della mia occupazione o della mia carriera nel prossimo futuro, e cosa questo potrebbe comportare sul piano della mia serenità familiare o su quello della mia reputazione sociale? E ancora: condivido la visione sovranista dei Paesi di Visegrad e stringo accordi con loro: in nome di queste convinzioni condivise, saranno solidali con me o mi si ritorceranno contro (i più acerrimi oppositori alle politiche economiche e a quelle migratorie del Governo giallo-verde sono stati, in Europa, Polonia e Ungheria, oltre all’Austria)? E sino a che punto non mi troverò scoperto sul fronte dei Paesi centro-nord europei? La necessità di ponderare attentamente le conseguenze del mio agire – dalla micro-realtà della vita quotidiana a quella macro- delle scelte internazionali e geopolitiche – impone un autocontrollo tale che, oltre un certo livello, ingenera uno stress e una frustrazione sempre meno sopportabili. Io leggo il sovranismo, il populismo – ma anche il crescente disagio personale caratteristico del nostro tempo – come una reazione a tale “malessere”. Se quell’autocontrollo è sinonimo di razionalizzazione del proprio comportamento e di civile convivenza su di essa basata, l’“imbarbarimento” degli atteggiamenti verso la diversità, del linguaggio politico, del confronto e delle relazioni interpersonali (testimoniato ad esempio dall’uso spesso offensivo e provocatorio dei social network) costituisce un processo di “decivilizzazione” che non solo è un tratto paradossalmente correlato a quello della modernizzazione e della complessificazione ma che impone di essere con quest’ultimo gestito, governato e “sintetizzato”.
Torniamo per un attimo alla questione “contingente” del (mancato) voto anticipato in Italia. In una fase nella quale la “pancia” ha preso il sopravvento sulla “ragione” – nella quale cioè, dal basso del proprio vissuto, si sono perse di vista le connessioni fra quei diversi e stratificati livelli di interdipendenze – davvero un sano “bagno elettorale” avrebbe costituito una soluzione ragionevole? (Parafrasandolo), qualcuno diceva che “tu puoi dimenticarti della realtà ma è la realtà che non si dimentica di te”. Puoi cioè illuderti che, ad esempio, l’uscita dall’Unione Europea e il ritorno alla lira − ciò che, parliamoci chiaro, è il filo conduttore, più o meno rivelato, della strategia politica leghista e, prima, grillina – siano le condizioni di un recupero della propria sovranità e del rilancio della propria economia. Ma – come mostrano gli spasmi che stanno scuotendo in queste ore la Gran Bretagna – niente potrà evitarti – come tutti i Centri di Ricerca nazionali e internazionali (o britannici e non) mostrano – crolli di cinque o più punti percentuali di PIL; aggravio insopportabile dei costi per la necessità di stipulare bilateralmente di nuovo contratti commerciali Paese per Paese, con conseguente ed eventuale imposizione di dazi “difensivi” e ritorsivi; dipendenze pressoché insopportabili da economie gigantesche come quelle della Cina e degli Stati Uniti; carenze di personale altamente qualificato (il vantaggio competitivo più importante, oggi, per qualsiasi azienda) nei settori strategici del sistema produttivo e dei servizi.
- La velocità del cambiamento: non è solo questione di complessità, quanto piuttosto di velocità e di ritmo, cioè di timing, dei mutamenti sociali ed economici. Si stima che, nel giro di un trentennio (nel 2050), l’automazione ricorsiva– ovvero l’applicazione dell’informatica a sé stessa, a creare tecnologie digitali esponenzialmente più potenti e ad un tasso di sviluppo inimmaginabile (esempio ne sia l’innovazione nel campo dell’Intelligenza Artificiale) – mieterà circa la metà dei posti di lavoro oggi conosciuti, sostituendo le mansioni (relativamente) più semplici e ripetitive con prestazioni totalmente robotizzate ma producendo anche altrettante professioni oggi nemmeno prevedibili ma sicuramente ad elevato contenuto conoscitivo, e questo nei diversi ambiti: dall’agricoltura all’industria, dalla Pubblica Amministrazione ai servizi alle imprese e alle persone. Tutta la Storia occidentale, ma non solo, rivela che ogni “passaggio d’epoca” – dalle economie rurali a quelle commerciali, da queste a quelle industriali e da quelle manifatturiere classiche a quelle basate sull’integrazione indissolubile fra produzione digitalizzata dei beni e servizi al cliente altrettanto mediati telematicamente – è sempre stato caratterizzato da soluzioni di continuità a velocità differenziata. In un primo momento – per dirla à laMarx – si verifica un balzo delle forze produttive (il pensiero “tecnico”, l’innovazione tecnologica, lo sconquassamento che tutto ciò produce per l’economia, con settori maturi condannati e altri inediti in forte espansione), che bruciano “società” e tutto ciò che sta loro intorno (tradizioni, consuetudini, reti di solidarietà consolidate, credenze politiche, equilibri istituzionali). È solo in un secondo momento – ci ha insegnato Polanyi – che la “società” riconquista − non senza sbagli e con tanta fatica – chiarezza di idee e un nuovo, temporaneo ma rodato equilibrio, inventando strumenti istituzionali in grado di imbrigliare quelle dinamiche tecniche ed economiche e di “addomesticarne” le ricadute, in modo che non ci siano più insidere outsiderma inclusi più forti e più deboli (o, sarebbe meglio dire, più e meno deboli).
Cos’è tutto questo, in fondo, se non il grande tema politico dell’integrazione nei circuiti della cittadinanza? Il paradosso di questa questione autenticamente politica – oggi appalesatosi in maniera inequivocabile − sta tuttavia in quella duplice velocità: quella ben più accentuata della razionalizzazione tecnica e quella ben più lenta del mutamento etico e culturale, della riflessione e del confronto pubblico, infine della proposta politica e della scelta d fronte alla quale essa si trova fra soluzioni immediate e di breve termine e risoluzioni più lungimiranti e di lungo respiro. Diceva Winston Churchill, che ciò che fa di un politico uno stratega, un vero leader, è il pensare nell’interesse non della sua ma delle future generazioni. E chiosava, a distanza di quarant’anni, Margareth Thatcher che mentre un politicante viene scelto per compiacere il popolo, un Politico con la “P” maiuscola viene eletto non per essere populista ma popolare, il che vuol dire in fondo “impopolare”. Anche in questo caso – posto che queste considerazioni siano plausibili e provando perciò ad applicarle alle vicende italiane (ma non solo) di oggi – il repentino e frequente ricorso al voto (nella molteplicità delle sue varie forme, tradizionali e nuove: voto referendario consultivo e/o propositivo e/o decisionale; voto diretto in tempo reale, stile piattaforma “Rousseau”, per il quale si riduce qualunque questione, anche la più complessa e dai risvolti spazio-temporali e geografici dilatati e mal prevedibili e gestibili, ad un semplice quesito “Sì”/”No”) è di fatto la negazione di quel “tempo vitale” che contraddistingue costitutivamente la democrazia politica. Non dico affatto – sia ben chiaro e non mi si fraintenda! – che la democrazia del domani debba depotenziare la sua stessa ragion d’essere: la libera espressione elettorale della popolazione, ovvero la base di legittimità e di controllo sovrano del potere dei rappresentanti da parte dei rappresentati. Dico solo che l’inflazione di quel momento “sacro” di manifestazione della propria opinione e dei propri orientamenti finirebbe per profanare quella stessa sua sacralità. E non c’è legittimità che non sia in (buona) parte sacra: da quella del segretario di un circolo culturale a quella di un Pontefice. Oggi, tutti si sentono in diritto di dire di tutto su tutto, e di esprimere questa loro tuttologia sempre più frequentemente. Il che ci porta alla domanda di fondo successiva.
- Quale popolo? La democrazia – come recita il suo stesso etimo – è governo, potere del popolo, o non è. Ma questo “popolo”, questo “dèmos” che rivendica il “kràtos” non è stato sempre lo stesso nel corso del tempo. Nell’antica Atene – tanto spesso celebrata come esempio di autentico regime democratico –esso era formato da poche migliaia di persone: benestanti, possidenti, filosofi, amanti dell’ozio contemplativo, insomma tuti coloro che, cittadini, avevano niente a che fare con il “lavoro” (i greci non avevano una parola equivalente a questa nostra). Sullo sfondo delle splendide iconografie che ritraevano Pericle mentre spiegava perché “… ad Atene [loro] facevano così…”, nella penombra dello scenario si potevano intravedere schiavi, donne, ma anche contadini e artigiani, dediti al ripetitivo contatto con la materia “sublunare”, perciò caduca, deperibile, senza senso. Lì la democrazia era in parte diretta – le cariche pubbliche erano a rotazione e per alzata di mano nell’Ecclesia, in pazza − ma solo in parte: vi erano corpi intermedi (ad esempio la Boulè, incaricata di organizzare quella stessa piazza e di vigilare sull’operato degli eletti e dei magistrati). Sino al Medioevo, si votava all’unanimità, ma questa non era affatto libera, era anzi imposta contro il dissenso. È in quel momento, negli antichi e sempre più numerosi monasteri cristiani nei quali si dovevano eleggere i Superiori, che si introduce gradualmente il criterio della maggioranza/minoranza. Il dèmos aumenta di volume, si differenzia, e con esso si moltiplicano gli interessi da rappresentare. Da allora, l’evoluzione ha seguito questo tracciato, con la formazione dei ceti, e poi delle classi sociali, fino a quella dei partiti come espressione organizzata di queste ultime e poi dei differenti gruppi di pressione. Sino al secolo scorso, il “popolo” si è differenziato e organizzato, ma la cifra comune è stata l’intermediazione di forti corpi rappresentativi e strutturati: partiti politici, sindacati, circoli e dopolavori. In essi, ci si familiarizzava gli uni con gli altri, ci si socializzava alla discussione, al confronto e allo scontro politico, ci si contrapponeva ma si imparava anche a contemperare gli interessi degli uni con quelli degli altri. Televisione e mass media tradizionali si rivolgevano e rendevano protagonisti persone e famiglie, e il timore cominciò a essere quello di un rapporto sempre più diretto fra detentori del potere e massa di soggetti sempre più individualizzati. Un rapporto diretto nel quale comunque, inevitabilmente, a soccombere sono sempre i più deboli: i singoli. E tuttavia, a dispetto delle tesi dei “catastrofisti”, c’erano ancora i gate-keeper, ovvero coloro che – per esperienza, sapere, saggezza anagrafica e generazionale, e questo in famiglia, nei bar di fronte alla sola televisione di quel quartiere, nei cinema dove ci si riuniva per vedere “Rischiatutto”, ma anche nelle sezioni comuniste o democristiane, nelle parrocchie ecc. – presidiavano la discussione, certo anche strumentalizzandola ai loro interessi ma soprattutto agevolandola, stimolandola alla riflessione e allo scambio dialogico, orientandola verso un’opinione conflittuale ma compromissoria, condivisa, generalmente legittimata nonostante i differenti punti di vista.
Oggi di tuto questo rimane ben poco. È innanzitutto, alla base, una questione spazio-temporale: la comunicazione digitale non la si fruisce – per suo tratto costitutivo – insieme ma in maniera tendenzialmente isolata. Mette in collegamento, sì – e attraverso geografie e cronologie potenzialmente senza confini − ma non in modo diretto, non in vivida compresenza fisica (un momento questo che, se se ne sente il bisogno, arriva dopo). La telematica mette al corrente delle cose ma in un overloaddi informazioni che, in quanto tali, non sono né producono conoscenza o sapere, né − in questa solitudine di fruizione – sono facilmente suscettibili di essere giudicate nella loro verità, verosimiglianza o falsità. I gate-keeperci sono ancora ma – da “bidirezionali” nel processo di discussione – sono diventati sempre più unidirezionali: blogger, influencer, intuitori di tendenze, youtuber, facebooker, e chi più ne ha più ne metta. Mentre nella sfera pubblica di un tempo prevaleva – nell’attivazione dei diversi sensi corporei impegnati nell’interazione in compresenza fisica – il tatto, l’udito e l’olfatto, finanche il gusto, nella nuova sfera pubblica digitale (o sfere pubbliche?) quello che la fa da padrona è la vista: le foto(shoppate) di Instagram, il setting ben curato delle dirette Facebook dei politici. Sottoponete ad una persona il discorso di un esponente di partito ora in forma audio, ora in forma visiva, e quella persona riconoscerà con più facilità quando il parlante mente nella prima modalità piuttosto che nella seconda. L’ascolto – diceva Simmel – spinge al dialogo e all’accordo, la vista, invece, abbaglia e facilita per questo la radicalizzazione nelle proprie posizioni e la contrapposizione.
Torno così, per concludere, alle vicende politiche italiane di queste ultime settimane. Quest’ultimo paradosso che la “democrazia che verrà” ci pone di fronte è la questione di quale tipo di potere sia capace, nella sua giusta sovranità, un “popolo” ormai non più segmentato ma frammentato. L’ho già detto su queste pagine, introducendo il senso dell’esperienza editoriale di “Solo Riformisti”. Quando sento pronunciare la parola “popolo” la prima reazione che ho è di smarrimento e di chiedere chi o cosa oggi esso sia. Io vedo persone e gruppi, ciascuno mosso da una propria visione e da un proprio, legittimo, interesse che è tendenzialmente sempre disposto, in prima battuta, a mettersi in discussione purché prima lo faccia quello degli altri. Ciò di cui oggi le post- o tardo-moderne democrazie occidentali mancano è quella preziosissima risorsa che è la fiducia: in sé stessi, nei consimili, nei conoscenti e negli sconosciuti, nelle istituzioni e nei sistemi socio-tecnici e politici (le Authority globali, politiche ed economiche). E questo sentimento – che altro non è, alla fine, che la ragionevole aspettativa che il tuo interlocutore agisca in maniera conforme ai tuoi desiderata o, più precisamente e meglio detto, che egli non si comporti in modo tale da poterti nuocere) − non si crea in fabbrica o con le stampanti tridimensionali ma nella relazione, nel “salto nel vuoto” – sempre terrorizzante e all’inizio, com’è naturale, istintivamente rimosso − in cui sempre consiste l’apertura all’altro e alla sua diversità. Io credo che oggi abbiamo davvero un disperato bisogno non di “comunicazione” – nel senso di azione coordinata con quella degli altri – ma di “relazione”, ovvero di un agire “relato”, riferito, aperto, a quello altrui. Se manca tutto questo, viene meno il cemento dei corpi intermedi, delle istanze di rappresentanza e dei fondamenti della rappresentatività. In questo tendenziale vuoto relazionale, l’idealità – ne segnalavo il rischio all’inizio − diventa “idealismo” e “ideologismo”, ovvero impersonale “media generalizzato di scambio” che, come l’anonimato della moneta, può tranquillamente servire ogni tipo di padrone. E valori come la coerenza politica, la chiarezza, la trasparenza e la continuità programmatica − per i quali oggi tutti si stracciano le vesti dopo però che quegli stessi tutti ne hanno fatto strame (non è forse vero che la Lega, il 4 marzo dello scorso anno, si è in quattro e quattr’otto disfatta del dissanguato Centrodestra per allearsi con il M5S? O che Salvini ha sin da ultimo offerto a Di Maio la Presidenza del Consiglio pur di rimediare all’errore tutt’al più di ingenuità di cui dice di essersi, almeno di quello, reso conto?) – mostrano tutta la loro fragilità, tutta la loro vuota “simulacrità”. Non però− io credo − (solo) per malafede (certo, anche per quello ma non solo). No. Ma perché – se non hai un orizzonte di senso che ti consenta di provare a reinverare i principi democratici di fondo secondo forme e contenuti adatti ai tempi che viviamo e che verranno – la finalità diventa mezzo. E viceversa.
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