Da alcune settimane, ma nell’ancora generale inconsapevolezza delle opinioni pubbliche della crucialità di quegli avvenimenti – le agenzie di stampa riportano notizie sulle manifestazioni di massa che si svolgono ormai quasi quotidianamente a Hong Kong, piccola isola a ridosso della Cina, sino al 1997 sotto controllo britannico e da quel momento restituita dal Regno Unito al gigante asiatico sulla base di un Trattato che ne garantisce l’autonomia, legislativa e giuridica, fino al 2047. Quanto vi accade sembra riguardare un mondo lontano, con conseguenze tutto sommato abbastanza limitate e sulla base di questioni solo apparentemente minimali. Quella microstoria rappresenta invece non solo uno dei bivi più importanti circa il futuro della cultura democratica ma si inserisce anche -il che contribuisce a comprenderla -nel pieno delle attuali dinamiche geopolitiche e commerciali, che vedono fra i protagonisti la Cina, gli Stati Uniti e l’Europa e che segneranno l’ordine globale dei prossimi immediati anni a venire.
La storia di Hong Kong di questi giorni è dirimente per più di un aspetto. Mi limito qui, in attesa di approfondire la cosa in successivi interventi, ad affrontarne soltanto due, che tuttavia hanno a che fare con il quadro di sfondo che condizionerà la vita quotidiana di tutti noi in un futuro molto prossimo.
Il primo riguarda le sorti della democrazia occidentale, ovvero di quell’insieme di principi liberal-democratici-il reciproco riconoscimento delle persone e il rispetto dei diritti umani; la salvaguardia delle minoranze pur alla luce del diritto delle maggioranze a orientare le azioni di governo; la separazione dei poteri come garanzia contro ogni deriva autoritaria; i fondamenti giuridici di questo modo di concepire il rapporto fra gruppi ed individui -che costituiscono l’eredità storica, sociale e politica (troppo spesso da noi stessi sminuita) del pensiero filosofico, sociale e politico europeo. Le “rivolte” di Hong Kong prendono le mosse, mesi fa, dalla proposta del Governo Locale -formato, senza libere elezioni e pluralismo partitico, su sostanziale nomina da parte di quello della Repubblica Popolare Cinese, e dunque diretta espressione dei suoi interessi -di un legge che, in mancanza di trattati bilaterali che regolamentino la questione, avrebbe consentito l’estradizione in Cina, Taiwan e Macao, di hongkonghesi e residenti stranieri nell’isola inquisiti di una serie di crimini fra i quali omicidio, stupro ma anche reati di tipo economico e commerciale. Ora, questo provvedimento -per il momento congelato, sull’onda delle manifestazioni, dalla Governatrice Carrie Lam ma con la ragionevole certezza che possa essere riproposto in Autunno nella speranza di un indebolimento del movimento di protesta -non solo sancirebbe la sottomissione all’ordinamento giuridico cinese ma costituirebbe anche l’abbandono dei principi del Diritto britannico ed europeo (esplicitamente riconosciuto nella sua autonomia applicativa dal Trattato del 1997) e la sottoposizione ad un regime che fa degli arresti indiscriminati e senza alcuna garanzia di difesa (in Cina, il 99% delle sentenze sono di condanna, spesso al carcere duro e alla pena di morte), delle imputazione costruite ex post a tavolino una volta assicurato alla “giustizia” il presunto reo anche mediante il suo rapimento all’estero, dell’imprevedibile trasformazione di capi di imputazione in altri per i quali siano previste pene molto più severe e squilibrate, le sue procedure più praticate e conosciute. Dietro il rifiuto apparentemente formale (e potenzialmente di facile aggiustamento e risoluzione) di un dispositivo giuridico, si gioca in realtà una battaglia culturale tra una tradizione giuridica libertaria e garantista e una invece autoritaria, arbitraria e sotto-ordinata agli interessi politici e statuali (non si dimentichi che tutte le istituzioni cinesi sono espressione diretta del Partito Comunista di quel Paese). E, più in là -ne sono il segno, profondo e indelebile, l’irruzione, nelle ultime settimane di protesta, di rivendicazioni quali quelle di elezioni libere e di reale competizione partitica, quando non della conquista di una definitiva indipendenza -tra una concezione umana e del mondo aperta al dialogo e fondata sul rispetto dell’individualità e una visione invece comunitaria, nella quale l’identità “Noi” debba sempre e comunque prevalere sull’identità “Io”.
Il modo di pensare il rapporto tra il potere e i suoi sottoposti è l’humus nel quale si alimenta, matura e prende forma il modo in cui si fa economia. La seconda questione dirimente che voglio toccare ha dunque a che fare con la logica economica che disegnerà (sta disegnando) gli equilibri fra i popoli del pianeta, quando non fra le diverse civiltà che lo animano. Qui non si tratta tanto di interrogarsi sul principio eurocentrico secondo il quale le libertà politiche e civili sono il presupposto di quelle produttive e di lavoro, o viceversa. È una discussione sterile, non foss’altro perché -esempio ne sia proprio la Cina o la razionalità del capitale finanziario, che tende ad accondiscendere a patto solo di una stabilità politica comunque assicurata da qualunque regime, democratico o meno -la storia ha mostrato che lo sviluppo materiale ben si afferma sia in quelle regioni del mondo ispirate alla liberal-democrazia, sia in quelle rette da sistemi di potere autoritari o totalitari. Il vero problema è la permeabilità dell’agire economico ai principi stessi dei diritti delle persone, dell’ambiente e dei lavoratori, in una parola: alla democrazia economica e all’ecosostenibilità. Il capitalismo -nelle sue diverse e numerose forme in cui si è presentato e si presenta, e la Cina ne costituisce una ora vincente-è un modo di produzione che, se lasciato a sé stesso, privo di regolamentazione, attiva proprie logiche autoreferenziali che finiscono sempre col bruciare le condizioni stesse del suo funzionamento. Fate prevalere la sola logica dell’utile -quanto mai chiara e autopropulsiva quanto più solo lo si riduca e lo si calcoli alle e nelle sue dimensioni quantitative -ed avrete qua la speculazione finanziaria che ha innescato il grande passaggio d’epoca del 2008 cominciato con la crisi dei subprime americani; lì la spoliazione dei Paesi più poveri – ad esempio quelli africani ora proprio soprattutto da parte delle imprese multinazionali cinesi -di tutte quelle loro immense risorse sottratte alla possibilità di uno sviluppo e di un progresso locali; là ancora, gli squilibri insopportabili dell’attuale catena internazionale del valore e del lavoro, che accentra nei Paesi ricchi le funzioni di ideazione, di progettazione, di innovazione scientifica e tecnologica, in quelli periferici le fasi materiali e manuali, che sono sì lavoro per bocche e mani ma altrettanto spesso per mani di bambini nelle miniere o di bocche che, produttrici di cacao, mai hanno assaggiato la dolcezza del cioccolato; qui, infine, le fiamme che stanno distruggendo in questi giorni l’Amazzonia di quel “criminale dell’umanità” che è Bolsonaro (in poche ore se n’è andato l’equivalente della metà del patrimonio boschivo italiano). Diceva Max Weber che il capitalismo ha raggiunto la sua massima espressione in Occidente perché è questa parte del pianeta che -fra le altre cose -ha conosciuto il pensiero ascetico intramondano protestante. Ma -nonostante la sua volgarizzazione -egli non solo riconosceva l’esistenza di molteplici tipi di mentalità capitalista, e non solo temeva (ne scriveva specialmente nei suoi scritti politici) che quello “nostrano” avrebbe rischiato di “uccidere Dio” e avrebbe potuto condannare noi tutti a “piroettare” allacciati a “fili sistemici invisibili”, come all’interno di una “gabbia di acciaio” tecnocratica. Da buon liberale, era anche convinto che quest’ultima deriva avrebbe potuto essere evitata soltanto a condizione che un autentico ethos democratico – fatto di Leader Responsabili, maturati nell’agone del libero dibattito pubblico e della libera organizzazione di interessi, rafforzato nella passione politica incanalata ed inverata nelle e dalle procedure “legali-razionali” del Diritto parlamentare rappresentativo -innervasse il mero “agire razionale allo scopo”, e vi conquistasse spazio, imbrigliandolo e “istituzionalizzandolo”, per le emozioni, la solidarietà, la mutualità, per il rispetto dell’essenza umana.
La Hong Kong di questi giorni – questa piccola isola che quasi nessuno, di primo acchito, sa geograficamente posizionare -è diventata all’improvviso il palcoscenico sul quale questo “conflitto di civiltà” è tornato improvvisamente e inaspettatamente in scena, così come fece ad esempio trent’anni fa in Piazza Tienanmen. È un conflitto “epico” ma – come ogni evento di reale portata storica, e proprio per questo -è un conflitto che, per quanto non sembri, ha ed avrà “enormi piccole” conseguenze concrete sulla nostra vita quotidiana. Le sorti delle grandi proteste degli Hongkonghesi rappresentano un cruciale punto di svolta nel progetto di supremazia geopolitica che la Repubblica Popolare Cinese sta perseguendo da almeno due decenni con lo sviluppo delle sue nuove “Vie della Seta”: quella terrestre (investimenti infrastrutturali transfrontalieri lungo la direttrice mediorientale e balcanica, lungo quella russa e nordeuropea, lungo infine quella dell’Oceano Pacifico sino al continente africano), quella commerciale (ad esempio i recenti Trattati firmati col Governo gialloverde italiano, con quello portoghese e con quello francese, a dispetto delle linee di politica economica dell’Unione Europea), infine anche quella militare (la conquista dei primi avamposti mediorientali e africani quali basi delle proprie Forze Armate). Per il momento, gli Stati Uniti gettano benzina sul fuoco (la politica trumpiana dei dazi), i Paesi europei balbettano nei propri idioletti, e l’Unione Europa…. tace.
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