Nelle celebrazioni per i 100 anni della morte di Matteotti molti lo dipingono come un uomo solo, quasi un eroe romantico. Una lettura sbagliata che ha come risultato la sottovalutazione degli errori dei massimalisti e dei comunisti.
Si sono svolte nelle scorse settimane varie iniziative per ricordare la figura di Giacomo Matteotti e la sua opera a cento anni dal suo assassinio. Il suo rapimento e, a quanto risulta, la sua morte avvennero il 10 giugno 1924.
Ne è emersa, oltreché la figura del martire antifascista, la notevole levatura dell’uomo, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista delle capacità politiche ed organizzative. Elevato anche il suo livello culturale: giurista, esperto in finanza pubblica e degli enti locali, poliglotta e perciò in grado di interloquire direttamente con i principali esponenti del socialismo europeo.
Matteotti era segretario nazionale del Partito Socialista Unitario, fondato nell’ottobre 1922 a seguito della espulsione della componente riformista dal Partito Socialista, guidato dai massimalisti che erano in maggioranza. L’ altra componente del movimento socialista e cioè il filone rivoluzionario aveva abbandonato il Partito Socialista e fondato nel gennaio 1921 il Partito Comunista.
Matteotti era da tempo la personalità politica che con più coraggio e incisività contrastava il fascismo, a cominciare proprio dalla sede parlamentare, e ne contestava puntualmente le violenze.
“Onorevole Matteotti ha la facoltà di continuare il suo discorso, ma prudentemente” lo invitò il presidente della Camera allorché il 30 maggio 1924 intervenne e chiese di annullare l’esito delle elezioni inficiate dalla violenza fascista. “Parlerò né prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente” rispose. Questa era la grandezza dell’uomo e del politico.
Come ben sintetizza Gaetano Arfè nella sua “Storia del socialismo italiano” sul finire del 1920 vi era stata nel movimento socialista la delusione seguita all’occupazione delle fabbriche e l’affievolimento della tensione rivoluzionaria: ci si dibatteva su quale fosse a quel punto la strada da percorrere.
La maggioranza massimalista del Partito Socialista tendeva principalmente a ribadire la fedeltà alla sua tradizione, a far sì che il Partito restasse incontaminato rispetto a possibili alleanze con settori della borghesia liberale ed attendesse che maturassero le condizioni del crollo del sistema capitalista, inevitabile per le sue contraddizioni.
L’ ala rivoluzionaria del movimento era soprattutto dedita alla costruzione del Partito Comunista e a differenziarsi dal resto della sinistra.
Sia massimalisti che rivoluzionari inoltre ritenevano prioritaria la loro sintonia col Partito comunista-bolscevico che governava a Mosca e che impartiva direttive ai vari partiti del movimento operaio che avevano aderito o chiedevano di aderire alla Terza internazionale, attiva dal 1919.
Non sospettavano che il quadro politico istituzionale entro il quale si svolgeva la lotta del movimento socialista italiano potesse venire sostanzialmente modificato.
Aggiungiamo che sia i massimalisti, sia soprattutto i rivoluzionari, avendo come obiettivo la instaurazione di una società socialista dopo il crollo di quella capitalista, non ritenevano prioritaria la difesa della democrazia liberal-borghese contro l’aggressione del fascismo.
Ma in realtà, come l’ evoluzione storica ha dimostrato (oggi pressoché tutta la sinistra si richiama al riformismo) l’avversione dei riformisti per i metodi del comunismo affermatosi in Russia e la difesa del sistema democratico nei confronti del fascismo che avanzava già si ponevano nell’ ottica del considerare, rispetto al fine ultimo, sempre più l’ importanza del percorso da compiere e del metodo democratico da usare, dal parlamento agli enti locali al mondo del lavoro, per ottenere graduali progressi e migliori condizioni di vita.
Ci spiegano Stefano Caretti e Marzio Breda nel libro “Il nemico di Mussolini”, presentato anche nella tre giorni organizzata da Anpi e Istituto Storico della Resistenza, che Matteotti riteneva (pag.115 e seguenti) che compito del Partito Socialista Unitario fosse principalmente quello di isolare il fascismo nel Parlamento e nel Paese, promuovendo un’ampia coalizione antifascista e allargando la propria influenza sui ceti medi, che la propaganda massimalista aveva contribuito ad allarmare e a rendere ostili.
Ricordiamo che I riformisti si erano costituiti in partito dopo essere stati espulsi dal Partito Socialista per il fatto che Turati, durante la crisi del governo Facta, aveva salito le scale del Quirinale per le consultazioni tenute dal Re.
Sembrò che la maggioranza massimalista del Partito Socialista con questa decisione volesse facilitare l’appoggio dei deputati socialisti riformisti ad un governo liberale che evitasse la svolta fascista, senza però che il Partito Socialista si contaminasse in un’intesa con la borghesia.
Giuseppe Emanuele Modigliani – secondo quanto ci narra l’Arfè -commenterà il fatto dicendo che hanno fatto come quei gentiluomini che per fare vita irreprensibile mandano la sera le proprie sorelle a “fare la vita”.
Quindi un Matteotti, segretario dei riformisti, certamente più incisivo e coraggioso rispetto a tanti suoi compagni, ma non un uomo solo e scollegato dal proprio movimento politico quasi un eroe romantico in lotta contro il male nell’ incomprensione generale.
E nemmeno un critico intransigente della borghesia liberale o dei cattolici, tanto da non prendere in considerazione una qualche possibile convergenza parlamentare per bloccare l’avvento del fascismo.
Una tendenza a dipingerlo in tale maniera, emersa durante la “tre giorni”, porterebbe come conseguenza a sottovalutare gli errori dei massimalisti e dei comunisti e il condizionamento da loro esercitato sui riformisti e comunque a non inquadrare in modo storicamente esatto la figura di Matteotti.
Vi fu invece la sottovalutazione del fenomeno fascista – come pure è emerso chiaramente tra le varie voci di tale “tre giorni”- da parte dei socialisti massimalisti e dei comunisti, a cominciare dai principali esponenti di entrambi tali movimenti, con anche una evidente carenza della loro azione parlamentare.
Quest’ ultima specificazione è provenuta in particolare da Riccardo Nencini nella presentazione del secondo dei suoi due libri su Giacomo Matteotti.
I fascisti invece ebbero paura di Matteotti e del ruolo che potevano assumere i riformisti dopo la loro costituzione in partito nell’ ottobre 1922, poiché rappresentavano pur sempre una forza parlamentare potenzialmente disponibile ad un’eventuale intesa antifascista, che tuttavia non fu ricercata, né al momento della marcia su Roma e neanche dopo l’ Aventino, per grande responsabilità della monarchia.
Dopo il 1920 un allarme per il sistema democratico borghese era stato lanciato da Filippo Turati, capo storico dei socialisti ed esponente dei riformisti ed anche Giacomo Matteotti fin dal Congresso di Bologna del 1919 si era appellato all’ unità del partito per fronteggiare i tempi bui che si profilavano e rilevava in seguito quanto fosse drammaticamente urgente la scelta positiva di un’azione che incidesse in una situazione politica che degenerava.
Pur espulso nel 1922 assieme agli altri riformisti, dalla casa madre del Partito Socialista Matteotti continuava a professare la sostanziale unità dei socialisti e l’antitesi netta per i metodi violenti usati dai comunisti per prendere e detenere il potere in Russia.
A collocare esattamente Giacomo Matteotti nel suo contesto politico e ad evitare di considerarlo distante, non solo da massimalisti e dai comunisti, ma addirittura isolato dagli stessi riformisti ed indisponibile a intese con la borghesia liberale, vale la pena di leggere quanto ci dicono Breda e Caretti a pagina 90 del loro già citato libro:
“Anche nel 1922 Matteotti si adopera per convincere i dirigenti del partito a promuovere un’intesa con altre formazioni antifasciste in difesa delle libertà democratiche allo scopo di evitare il rischio dell’isolamento e per non finire con il rinchiudersi in uno sterile atteggiamento puramente negativo.” Siamo nel settembre 1922 a pochi giorni dal Congresso in cui i riformisti saranno espulsi e a poche settimane dalla marcia su Roma: i dirigenti del Partito cui Matteotti fino all’ ultimo si appella sono i massimalisti. I comunisti già hanno il loro partito.
Giuliano
Caro Carlo, i miei complimenti , sia per la qualita’ della ricerca storica che pet la scorrevolezza del testo
Giuliano
Massimo Giannelli
Articolo di tutto rispetto frutto di cultura e studio.
Antonio Frintino
intervento equilibrato, analisi corretta del contesto storico, indicazioni puntuali per un profilo umano, culturale e politico di Matteotti.
Graziano Bonacchi
condivido completamente. Bravo Carlo.