Forse qualcuno si sarà accorto che manco da un po’ su SoloRiformisti. Da quando è stata dichiarata l’emergenza pandemica mondiale. In effetti tenendo qui una rubrica sulla città a pensarci bene mi potrebbe essere scarseggiato il soggetto di studio: lo confesso, salvo rapidissime sortite, sono in casa dal 29 febbraio.
Ma anche stando a casa (o uscendo solo per la spesa, poche volte) di cose ne ho viste molte, roba da antropologi dico: come l’Italia sia una nazione ai limiti dell’assurdo e come le nostre città mute di abitanti siano davvero inutili. Sì, la parola giusta è inutile.
Una città vuota non è bella, suggestiva, pittoresca: è morta.
Purtroppo vedo e leggo che pochi hanno capito queste cose, facendo ogni giorno di più l’elogio del vuoto, come se fosse una bella cosa.
Ma di questo ci sarà tempo di parlarne in modo dettagliato.
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Ma non pensate che in questo tempo sia stato in letargo. Ho letto, scritto, riflettuto moltissimo. Ovviamente per lavori che avevo in corso (e dei quali voglio tenere la consegna nei tempi stabiliti) e più in generale per nuovi progetti, con idee, appunti.
Riordinando vecchie cose poi ho trovato un racconto che avevo scritto nel 2015 (“15 giugno 1918”), con protagonista Celso Capacci, l’ingegnere del quale mi occupo, avendo recuperato l’archivio e sul quale ho pubblicato alcuni saggi.
Celso era un rilevante esperto di lignite, ha curato la voce su questo combustibile in un’importante enciclopedia ottocentesca ideata da Raffaele Pareto, il padre dell’economista e sociologo Vilfredo.
Dalla fine dell’Ottocento (morirà nel 1929) vive in Mugello, è sindaco di Vaglia e si occupa ancora di ricerche sulla lignite: in Toscana oltre a quella del Valdarno (dove Celso, giovane ingegnere, aveva lavorato proprio alle dipendenze di Vilfredo Pareto) una lignite di qualità si trovava in Mugello, scavata in piccole miniere familiari sino agli anni Cinquanta del Novecento.
Questo tema, i combustibili fossili in Toscana, è molto interessante, e ci offre nel momento un significativo spaccato economico e oggi la possibilità di riflettere su nuovi approcci al territorio.
Nel 2014 partecipai al parco archeominerario di Rocca San Silvestro (LI) a un rilevante convegno proprio sulla valorizzazione delle aree minerarie, presentando una relazione sull’uso turistico delle ex miniere di lignite di Lumena, nel Mugello, dove ho ambientato il racconto di Celso. Nella bibliografia trovate il link al saggio su Academia.
Nel racconto infatti narro un po’ romanzato un momento della ricerca di Celso proprio sulla lignite del Mugello. Certo, c’è un po’ di invenzione, ma poca, dato che tutti i personaggi sono realmente esistiti e la giornata del nostro ingegnere è del tutto plausibile, così come veri sono i suoi appunti citati.
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Bibliografia.
Enciclopedia delle arti e industrie compilata colla direzione dell’ingegnere M.se Raffaele Pareto e del cav. ingegnere Giovanni Sacheri, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1878-1898;
- Capacci, Studi sulle ligniti, Torino, Unione Tip. Ed. Torinese, 1890;
- Fagioli, “Cento metri da casa, cento metri sotto casa”. La valorizzazione delle ex miniere di lignite di Lumena (Mugello, Firenze),
www.academia.edu/43082005/S._Fagioli_Cento_metri_da_casa_cento_metri_sotto_casa_._La_valorizzazione_delle_ex_miniere_di_lignite_di_Lumena_Mugello_Firenze_
- Fagioli, Vilfredo Pareto nella Toscana del secondo Ottocento. Un’antologia di scritti editi e inediti, Firenze, Fondazione Giovanni Spadolini – Polistampa, 2015;
- Fagioli, Eyes wide shut. L’ingegner Celso Capacci da Firenze alla World’s Columbian Exposition di Chicago (1893),in Viaggi fantasmagorici. L’odeporica delle esposizioni universali (1851-1940), a cura di A. Pellegrino, Milano, Angeli, 2019, pp. 113-136;
- Fagioli, L’acqua potabile, che da quasi un secolo è argomento di lagni”. L’ingegner Celso Capacci e il dibattito sull’acquedotto di Firenze (1887-1918), con interventi di A. Giuntini, A. Giatti, M. B. Bettazzi, F. Vannoni, Firenze, Opificio – Publiacqua, 2019.
Nella foto lo scavo della lignite a cielo aperto (1918 circa).
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15 Giugno 1918.
Non che non lo avesse mai fatto, per carità.
Ma a piedi dall’Olmo a Lumena a metà giugno non era proprio una passeggiata, ecco.
– Sei sicuro di andare domani a Lumena da solo e a piedi?
– Chi dovrebbe venire con me?
– Porta Francesco…
– Vado da solo e a piedi. Ora dormi.
– Prendi il calesse.
– Dormi.
Celso si alzò di buon’ora: era ancora buio. Erano quasi le 5.00. Voleva partire alle 5.30 in punto, per l’alba.
Quando scese sull’aja un vago chiarore macchiava il cielo e Firenze in basso era una chiazza appena distinta.
Si era affacciato nella camera di Francesco, a casa per una breve licenza. Ne aveva visto il sonno agitato e non lo aveva svegliato. Il fratello gemello Antonio era sul Carso. Sperò che tutto finisse in fretta, prima della sua vita. Aveva sessantaquattro anni, qualche acciacco, ma l’occhio vigile ed il passo pronto.
In marcia dunque.
Nello zaino il quaderno per gli appunti e il martello. Nulla da mangiare: si sarebbe fatto dare qualcosa dai contadini e avrebbe bevuto alle fontane.
La strada più corta lo avrebbe portato a Pratolino e poi giù nella valle.
Ma decise all’ultimo di fare un altro percorso: da Bivigliano per un saluto a Giulia e al cognato.
In giro davvero non c’era anima viva: i suoi contadini erano ancora a letto e le vacche le avrebbero munte chissà quando, le pecore poi ancora nella stalla.
Scosse il capo: “Caro Celso, sei vecchio, vecchio e decrepito, non ci capisci più nulla in questo mondo.”
Con il bastone batté sul ciglio della strada come per dire “Questa terra è vecchia come me…”.
A passo svelto arrivò a Bivigliano, saranno state le 6.30: a villa Pozzolini tutte le finestre erano chiuse. Tirò di lungo.
Sembrava che quel 15 di giugno del 1918 il mondo si fosse fermato.
Non trovò nessuno fino a Vaglia. Lì qualcuno andava alla stazione. Avrebbe potuto prendere il treno fino a San Piero, ma perché poi? Tirò di lungo anche lì. Il Comune era chiuso. Lo aveva inaugurato lui, il 20 settembre 1908: dieci anni. Ne era passato di tempo. Nel giardino il busto di Umberto I del simpatico Romanelli: anche quello lo aveva inaugurato lui lo stesso giorno, con il Vermouth d’onore, come diceva il volantino ricordo.
Sul palazzo avevano messo una lapide con il suo nome: “Il Comune grato sindaco Celso Capacci pose XX settembre MCMVIII”.
Salutò il re toccandosi il cappello e via.
La caserma dei Carabinieri poco più avanti aveva le imposte serrate.
San Piero, Scarperia, Sant’Agata: il Mugello piano piano si animava.
A Sant’Agata bevve alla fontana della chiesa e poi verso Lumena.
Le cave di lignite non erano lontane, dalla parte di Gagliano, dai Palanti. Lo aveva conosciuto il vecchio Palanti, e l’Amadori, che stava nella casa sotto strada.
Erano morti di sicuro.
La guerra aveva riempito il Mugello di morti, giovani però.
Pensò che gli sarebbe piaciuto salire al Giogo, ma non oggi, a ottobre per le castagne.
La villa dello Sprocco gli si parò dietro una curva: dicevano che fosse stata dei Medici, di un Lorenzo, ma forse non il Magnifico.
Gli scavi della lignite erano proprio di fronte alla villa, sulla collina.
Pensò che quella gita se la sarebbe potuta risparmiare, le cave le conosceva e magari se tornava presto indietro sarebbe potuto arrivare al Giogo, anche se non c’erano le castagne. Qualcuno gli avrebbe potuto vendere dei funghi, chissà.
Si asciugò il sudore con la manica della giacca e si avviò per la collina.
Sotto strada, nei campi dei Palanti c’era un pozzo che non aveva visto e sopra la vena scoperchiata sembrava più grande di quanto l’avesse vista l’ultima volta.
Tra minatori, muli e bambini ci saranno state venti persone.
Deviò per una viottola e scese nella valletta dove avevano aperto il pozzo.
Tre minatori fumavano buttati per terra.
– Omini, c’è l’ingegnere qui?
– Ora no signore, è a Scarperia.
Tirò due bestemmie secche: – Vengo anch’io da Scarperia. Ci si doveva vedere qui oggi.
– Non so nulla. Può darsi che torni. Vada su dai Palanti e senta loro.
– Il vecchio Bona è morto vero?
– È quel dì che è morto. L’hanno bell’e mangiato i bai.
Celso biascicò una fila di bestemmie che avrebbero scavato la fossa al Bona se fosse stato ancora vivo e riprese la viottola fino allo sterro.
Quando arrivò su si mise a ridere di gusto: lo sterro era una fossa lunga venti metri, larga tre e profonda non più di due. La lignite era un banco di un metro.
Si mise a sedere in terra, a guardare tre scavatori che sembravano si sterrassero la fossa da morto da soli, anche loro.
Quando era in Valdarno, a Castelnuovo, gli sterri erano una montagna, sembravano formicai con decine di operai aggrappati che scavavano scavavano scavavano.
E quel Pareto che veniva sempre a rompere i coglioni su tutto: “Capacci qui non va, Capacci la lignite è bagnata, Capacci gli operai battono la fiacca…”
Qui sì che battevano la fiacca.
– Omini come scavate qui?
– Colla pala.
– Seh, bona Ugo!
Il sole era già alto e la collina brulla di pascoli e campi non offriva ripari. Tornò sulla strada alla ricerca dei Palanti.
– Oh, di casa, c’è nessuno?
– Venga venga, chi cerca?
– Sono l’ingegner Capacci, siete dei Palanti?
– Venga venga, son la figliola del Bona.
Mezzo accecato dal sole entrò in casa: ci mancò nulla che finisse in terra incespicando su uno scalino mezzo rotto. La casa era buia, ma trovò lo stesso la cucina.
Una donna non giovane, non giovane come l’aveva immaginata, preparava il pane.
– Venga venga.
– Cercavo l’ingegnere della miniera.
– Seh, che vole, oggi non viene. La moglie sta per partorire. È a Scarperia. Lo vole un po’ di pane e cacio?
– Oh quant’è che è morto il Bona?
– Saran cinqu’anni, pohero babbo.
– Allora se l’ingegnere non c’è torno via.
– Lo vole il pane?
– No, vo via. Saluti.
Uscì di casa senza tanti convenevoli. La figlia del Bona gli aveva fatto venire in mente le donne di Chicago, le gonnelle alle quali correva dietro all’Esposizione di Colombo, nel 1893. Si asciugò la fronte con il fazzoletto che sembrava uno straccio. Aveva fatto meglio a prendere il pane col formaggio e magari un po’ di vino. A Scarperia arrivò col fiato corto, con il sole sulla testa. L’ingegnere non lo avrebbe cercato. Per via di Fagna tornò a San Piero.
La grandiosa gita dall’Olmo a Lumena era stata un fallimento. Quella maledetta giacca di fustagno lo faceva sudare come un ciuco, gli scarponi erano come due mattoni, la sete e la fame poi… Glielo aveva detto Maria Antonietta: “Celso prendi il calesse…” Le mogli hanno sempre ragione.
Prese il treno fino a Vaglia e poi con una vettura si fece portare a Pratolino.
A passo meno svelto arrivò a casa: sgattaiolò nello studio e si buttò sulla poltrona: “Caro Celso, sei vecchio, non ce la fai più. A Lumena a piedi, a fare che? Per vedere uno sterro da bambini e un pozzo da nulla?”
Ma subito con uno sforzo si mise alla scrivania e fece due scarabocchi:
“Anni addietro fu scavata nella località di Lumena la lignite a taglio aperto. Ora i lavori si trovano concentrati più a sud, sotto il podere di Palanti, poco al di sopra dello Sprocco, e si distinguono in una piccola rete di gallerie ed in un taglio aperto diretto N-S con un fronte di argilla che vi ricopre un banco lignitifero avente 2 m di…”
La matita gli cascò per terra e quando Maria Antonietta lo trovò russava come un cavallo da tiro con la testa sui fogli.
massimo bartoloni
bello bello bello io sono Massimo bartoloni sono nato a lumena mia zia anna sposò Duilip Palanti Il racconto fotografa tutto anche il mondo di rendere evidente i caratteri di quella gente sono veri non verosimili Sono commosso