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La fuga dalla complessità

Non esistono soluzioni semplici per problemi complessi. La vicenda della Brexit ha mostrato che questo interesse al dibattito serio è poco diffuso persino in un Paese che pensavamo altamente pragmatico e razionale, come la Gran Bretagna

3 Dicembre 2019 da Pietro Ichino Lascia un commento

Le questioni complesse non hanno soluzioni semplici. Ne è una conferma drammatica la Brexit, che – dalla campagna pre-referendaria a oggi – è stata motivata con una patetica sequenza di semplificazioni, dagli slogan iniziali (“leave the EU”, “take back control!”) fino a quelli di questi giorni (“deliver a clean Brexit”, “out means out!”).

La complessità si affronta con altrettanta complessità; la quale però richiede fatica molto maggiore di quanta ne richieda la proclamazione di slogan. È deprimente constatare che, sebbene della questione estremamente complessa del distacco della Gran Bretagna dall’UE si sia parlato ininterrottamente da quando il referendum del 2016 fu annunciato a oggi, i britannici hanno dimostrato pochissimo interesse a saperne di più. La conoscenza di concetti base (che cos’è l’Unione Europea e quali sono i suoi poteri? quanto versa il Regno Unito alla UE e come vengono utilizzati questi fondi? e così via) è scarsamente diffusa; e i sondaggi mostrano che, nel caso di un secondo referendum, gran parte degli elettori non saprebbero come votare perché si sentono ancora poco informati!

 

Diversi psicologi, tra i quali Daniel Kahneman, hanno mostrato come le persone, nel momento in cui viene posta loro una domanda difficile, spesso finiscano per rispondere riferendosi nella loro mente a una domanda più facile, senza neanche accorgersene (il fenomeno si chiama attribute substitution). Per esempio, alla valutazione dell’operato di Mario Draghi alla BCE si può sostituire inconsapevolmente la valutazione del suo aspetto fisico o del timbro della sua voce.

La cosa più sconvolgente, nel caso della Brexit, è che queste semplificazioni sono ormai diventate la normalità incontrastata, con i media che – salvi rari casi – preferiscono la drammatizzazione all’informazione e con il Paese piombato in un’interminabile lotta tra Montecchi e Capuleti, destinata a durare quale che sia l’esito della vicenda.

Una delle lezioni da trarre dalla Brexit è che gli slogan non si possono combattere solo con altri slogan: occorre confutare costantemente le soluzioni semplici proposte dalla parte avversa, la fatica di comunicare la complessità a un’opinione pubblica distratta. Questo si può fare con successo quando si hanno media veramente indipendenti, che traggono la propria autorevolezza proprio dal rifiuto della fuga nella semplificazione; ma occorre anche un’opinione pubblica in qualche modo interessata a fare le pulci ai politici sulle cose che contano, non sui pettegolezzi da bar o da spiaggia. Un esempio lampante è la proposta di “soluzioni tecnologiche” alla questione della frontiera doganale tra Nord Irlanda e Repubblica d’Irlanda: con un paio di domande mirate si sarebbe capito subito che queste “tecnologie” non esistono.

La vicenda della Brexit ha mostrato che questo interesse al dibattito serio è poco diffuso persino in un Paese che pensavamo altamente pragmatico e razionale, come la Gran Bretagna; e ha mostrato quali danni enormi possano derivarne. Ma la lezione vale a tutte le latitudini e longitudini. E tanto più vale in un Paese come l’Italia, dove da un paio d’anni si assiste al trionfo nei sondaggi e nelle consultazioni elettorali di un leader che può permettersi di predicare l’uscita dell’Italia dall’UE d’inverno, primavera ed estate, per poi in autunno dichiarare all’improvviso che l’appartenenza dell’Italia alla UE e al sistema dell’Euro è irreversibile, senza che alcun giornalista gli chieda le implicazioni pratiche di questa inversione a U sul suo programma. Perché l’opinione pubblica si appassiona di più a discutere di come i leader se la cavano nei talk show televisivi, come si vestono, dove cenano e con chi vanno in vacanza. Trarre tutti gli insegnamenti dalla lezione della Brexit significa prendere atto di questa grave disfunzione che colpisce non solo la democrazia più antica del mondo, ma tutte le democrazie occidentali. E impone, per prima cosa, di mettere profondamente in discussione gli spazi nei quali possono operare utilmente oggi la democrazia diretta, l’assemblearismo, il metodo referendario e la consultazione online. Se non si vuole che le grandi questioni dalle quali dipende il nostro futuro vengano trattate nello stesso modo in cui si fa un “re-tweet” o un “like” di una foto postata su Facebook.

 

Articolo di Pietro Ichino e Pietro Micheli, professore di Performance Organizzative e Innovazione nell’Università di Warwick, ripreso dal sito www,pietroichino.it e pubblicato con il consenso dell’autore

 

 

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