Regno Unito: conservatori pigliatutto. È una brutta notizia? Non del tutto. Ha vinto, certo anche la Brexit, ma almeno adesso quadro è definito: Boris Johnson ha avuto dagli elettori britannici pieno mandato. Lo scenario è chiaro, pur non essendo quello auspicato dalla gran parte degli osservatori. Eppure una cosa può e deve sempre consolare: l’espressione democratica del voto popolare è sempre, insieme, monito e stimolo. Per vincitori e vinti. Sappiamo come si è arrivati a questo punto. L’ex primo ministro conservatore David Cameron, in difficoltà per la riconferma, nel 2015, promise in campagna elettorale che avrebbe in caso di vittoria, indetto un referendum in cui si sarebbe chiesto ai britannici se avessero voluto o meno restare nell’Ue. Sappiamo come andò. I conservatori vinsero e Cameron fu costretto ad indire il referendum schierandosi per il remain, vinse però il ‘Brexit’ e Cameron fu costretto a dimettersi. A Cameron subentrò Teresa May, che tentò vari accordi per l’uscita, che però furono bocciati dal Parlamento e la costrinsero a dimettersi. I Tories estraggono dal cilindro Johnson, ovvero un estremista pro Brexit. Laburisti non pervenuti, ondivaghi e in mano ad un leader con la testa rivolta al novecento. Johnson, per niente incline al dialogo, incontra, come ovvio delle difficoltà sempre maggiori, addirittura portando la Gran Bretagna alla paralisi istituzionale. Il successivo scioglimento delle Camere e le elezioni, ne è la conseguenza. Johnson trascina i britannici al voto tentando il tutto per tutto. La Gran Bretagna soffre di una crisi economica e di valori e l’Inghilterra profonda cerca sicurezza. Le elezioni hanno dunque espresso, come previsto da mesi e solo messo un po’ in discussione negli ultimi giorni, una vittoria schiacciante dell’ex giornalista prestato alla politica. Un uomo dal look improbabile e i modi spiccioli. Sicuramente lontano anni luce dal modello del gentleman britannico. Le ragioni di una tale affermazione sono molteplici. Saranno analizzate con grande attenzione, ma intanto una constatazione salta agli occhi: la debolezza del suo avversario: il laburista Corbyn, il quale ha impostato la sua campagna elettorale con una ambiguità di fondo: se vinco chiederò un referendum sulla Brexit. L’autoironia, il proverbiale ‘self-humor’ ha avuto un eccezionale interprete, seppure involontario. E poco ha scaldato i cuori sentirlo intonare ‘bandiera rossa’. I britannici un altro Cameron in salsa ‘red’ proprio non lo vogliono. Adesso si aprono scenari imprevedibili, perfino una uscita senza accordo devastante. Va visto quanto Johnson tirerà la corda e quanto le istituzioni europee vorranno concedere. Sullo sfondo intanto si staglia l’ingombrante sagoma di Donald Trump, che cercherà di intromettersi per portare la Gran Bretagna verso gli States e anche al suo modello, cui peraltro Johnson si ispira nel cuore dell’Europa. Intanto, però, non secondari per il biondo leader britannico, saranno le questioni interne, per esempio con la Scozia, pronta alla secessione: quasi tutti i seggi scozzesi sono andati al partito “no brexit” e pronto al distacco da Londra. Intanto nel Labour siamo alla resa dei conti: la stella del vecchio Corbyn pare essersi definitivamente spenta e per la successione è molto probabile che si punti ad un leader meno radicale. L’unica cosa stabile, nel Regno Unito (per ora), resta la corona, sicuramente più di quanto non lo sarà … la sterlina.
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